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La missione degli Ambasciatori Giapponesi del 1585 e Bagnaia

I sovrani locali giapponesi (daimyo), impegnati nello sforzo di accrescere il loro potere militare ed eco­nomico, accolsero infatti con favore gli scambi com­merciali con gli Occidentali, che potevano offrire armi da fuoco e oggetti tecnicamente nuovi, e dimostrarono un notevole interesse verso tutto ciò che costituiva la loro scienza compresa quindi la religione.

 

villa lante Bagnaia affresco palazzina Gambara XVI sec. naturaeartificio.itOccorre subito sgombrare il campo dal pregiudi­zio che il Giappone fosse allora un paese economica­mente arretrato rispetto all’Europa: nonostante le con­tinue guerre interne, infatti, nel corso del periodo Muromachi (1338-1573) il Giappone aveva attuato una vigorosa espansione economica, con trasformazioni agri­cole accompagnate dall’affermarsi delle corporazioni ar­tigianali (Za) e da una sempre maggiore monetarizzazione e commercializzazione dell’economia. Esistevano città ricche e popolose in gran numero, non più solo nei centri amministrativi tradizionali, ma nelle province e intorno ai porti e mercati maggiori.

Il commercio con la Cina era ampio e altamente redditizio, e, nel momento dell’arrivo dei Portoghesi a Goa e poi a Macao, i signori feudali giapponesi com­prendevano benissimo l’importanza dei redditi mercan­tili come mezzo per accrescere la potenza delle loro città.

Dalla seconda metà del Cinquecento fino alla chiu­sura dei rapporti con gli stranieri (1639) che portò alla cessazione della maggior parte del commercio in­ternazionale del Giappone, circa 10.000 Giapponesi emigrarono verso le coste dell’Asia per costituirvi co­lonie commerciali (3).

Traendo profitto dalla conoscenza della tecnica na­vale dei Portoghesi, le piccole navi usate fino a quel momento furono trasformate in unità di stazza mag­giore, adatte alle traversate oceaniche, e nel 1613 una seconda missione giapponese, mandata dal daimyo Date Masamune (con il consenso dello stesso shogun Tokugawa Ieyasu) ad aprire il commercio con il Messico, raggiungeva con una nave giapponese e 180 uomini di equipaggio l’Europa, e ripercorerva la strada per Ro­ma. Un impressionante viaggio durato sette anni, attraverso il Pacifico e l'Atlantico: dovette però cer­tamente causare negli Europei minore interesse della prima spedizione, di cui ci stiamo occupando, poiché veniva a mancarle il fascino della novità, sottolineato dagli osservatori dell’epoca.

Il carattere prettamente mercantile di questa seconda missione è un altro elemento di differenziazione rispetto alla precedente: nella missione inviata dai tre dai­myo, infatti, è da escludere che si volessero ottenere direttamente benefici commerciali.

JapaneseEmbassyÈ da sottolineare invece che l’atto di sottomissio­ne al Papa recato dagli ambasciatori, una vera e pro­pria « commendatio » feudale (5) da parte dei tre si­gnori (ancorché occorra considerarla nominale a causa della grande distanza), fu voluto dal governatore di Hizen, Omura Sumkada, e fu poi parte determinante nella decisione del nuovo capo militare e politico del Giappone, Toyotomi Hideyoshi, nel 1587, di bandire il Cristianesimo dal Giappone: era infatti in gioco il possesso dell’importante città portuale di Nagasaki (6). Introducendo il Cristianesimo nei loro domini, e addi­rittura — come in questo caso — riconoscendone l'appartenenza al Papa, i signori feudali giapponesi gioca­vano una grossa carta a favore della propria indipen­denza nei confronti del potere centrale, che proprio in quegli anni aveva iniziato l’opera di riunificazione e cercava di affermare la propria autorità sulle signorie locali (7).

Interessi economici, dunque, ed interessi politici possono spiegare in una notevole misura la favorevole accoglienza ricevuta da Francesco Saverio e dai suoi missionari della Compagnia di Gesù, sia nel Kyushu che, per un certo periodo, nella stessa capitale Kyoto; ma, ovviamente, l’alto numero di conversioni non è spiegabile solop con questi motivi: nel 1582 il visitatore gesuita Alessandro Valignani contava i convertiti a circa 150.000 (e l'arrivo di Francesco Saveriuo è solo del 1549!). Molto deve aver contribuito l'alta statura morale e la vasta cultura dei padri gesuiti, unite alla loro disponibilità ad apprezzare e comprendere i co­stumi del paese. Fanno fede della sincerità delle con­versioni le stesse lettere inviate al papa Gregorio XIII dai tre signori giapponesi, ricche di fervide espressioni cristiane (8), nonché il comportamento dei loro amba­sciatori, unanimamente descritto dalle relazioni dell’e­poca come assolutamente edificante e pio.

Abbiamo citato il Valignani, ed è proprio a questo energico gesuita che si deve l’organizzazione della prima missione giapponese a Roma. Aderirono al suo invito i tre daimyo di cui dicevamo: Omura Sumitada, battezzato per primo con il nome di Bartolomeo, signore di Hizen; Arima Harunobu, battezzato come Protasio, signore nella stessa regione e nipote di Omura; infine, Otomo Yoshishige (detto Sorin), chiamato dai cristiani Francesco, « re » di Bungo: il più potente dei tre.

I daimyo scelsero a rarppresentarli due giovanissimi congiunti ritenendoli meglio adatti a sopportare le fatiche del lungo e rischioso viaggio: Ito Mantio, di circa quindici anni, cognato di Francesco e quindi capomissione; Chijiwa Michele, ugualmente quindicenne, cugino di Arima e nipote di Omura. A questi due principi si aggiunsero altri due giovani dell’alta aristocrazia, Nakaura Giuliano e Hara Martino.

Il 20 febbraio 1582, gli inviati, accompagnati da molti servitori, partivano dal porto di Nagasaki su una nave portoghese, per un viaggio che, tra andata e ritorno, sarebbe durato otto anni e mezzo. Facevano parte della spedizione Alessandro Valignani, cthe fu però costretto a fermarsi a Goa perché nominato Provinciale delle Indie (trasmise la tutela degli inviati al padre Nunzio Rodriguez), e due interpreti: un prete portoghese, il padre Mesquita, e un anonimo gesuita giapponese. Benché, durante i loro studi e nel lungo viaggio, avessero imparato (come dice il Meietto) « la lingua Portoghese bene, e la Spagnuola mediocremente, la Latina in gran parte, e intendono l’italiana quasi tutta, avvenga che non la parlino sicura », i giovani principi usarono costantemente servirsi di tali interpreti durante le loro conversazioni ufficiali con gli Europei (9).

Del viaggio ci è rimasta una interessante relazione degli stessi protagonisti, raccolta e tradotta in latino sotto forma di dialogo dal gesuita Eduardo De Sande, pubblicata a Macao nel 1590 con l’autorizzazione dello stesso Valignani, ad edificazione dei giovani catecumeni giapponesi. Il dialogo, intitolato « De missione legatorum Iaponensium ad Romanam Curiam », si svolge tra i quattro ambasciatori e due cugini di Michele, chiamati Leo e Lino, che non hanno mai lasciato il Giappone e li interrogano sul loro viaggio e sulle costumanze degli Europei.

Dopo un fortunoso viaggio durato due anni e mezzo, la spedizione raggiungeva Lisbona, il 10 agosto 1584, e si avviava alla volta di Madrid, dove gli inviati furano ricevuti dal primo sovrano cristiano, Filippo II di Spagna. Quasi un anno dopo, i messi raggiunsero le coste dell'Italia, sbarcando a Livorno il 1° marzo 1585: grandi accoglienze furono loro preparate dal Granduca di Toscana, che fece loro visitare Pisa, Firenze e Siena. Le macchine fotografiche non esistevano ancora, ma questi primi turisti giapponesi ci hanno ugualmente lasciato, nella relazione, delle descrizioni della Firenze medicea che possiamo definire fotografiche per abbondanza e precisione di particolari...

Partiti da Siena il 17 marzo, gli ambasciatori entrarono finalmente nel territorio della Chiesa, già a San Quirico avevano trovato un messaggio papale che li invitò ad affrettarsi, in quanto il Pontefice li attendeva con grande ansietà. Presagiva forse di non aver più molto tempo da vivere. Ma seguiamo ora il racconto dello stesso capomissione, Ito Mantio: « Ci affrettammo quindi quanto potemmo... passando per Bolsena, arrivammo a Viterbo, e prima che vi entrassimo, fummo ricevuti dai maggiorenti con duecento armigeri che ci vennero incontro, e fummo condotti in un alloggio sontuosamente allestito » (10).

Il Pontefice stesso aveva dato ordine al Vicelegato di Viterbo e protonotario Apostolico, monsignor Orazio Celso, « che nell’entrare nello Stato ecclesiastico li provvedesse di onorata compagnia e di tutte le altre cose convenevoli e necessarie. Nel che si portò quel prelato con tanto fervore che non lasciò luogo né a ricordi né a stimoli » (11). A dire il vero, non sarebbero forse state necessarie le premure di monsignor Celso, in quanto tutti i nobili e le alte cariche ecclesiastiche italiane fecero a gara nell’offrire loro ospitalità o nell’assicurarsi per lo meno una visita degli ambasciatori di quel lontano paese: così lontano, che alcuni dubitavano perfino della sua reale esistenza (12).

A tal punto giungevano l’entusiasmo e la curiosità, che durante la permanenza a Roma il Papa dovette proibire agli ambasciatori di accettare qualsiasi invito, temendo che per l’eccessivo numero di ricevimenti la loro salute ne avesse a soffrire (13). D’altra parte, quando era loro possibile, i giovani preferivano l’ospitalità dei Gesuiti, alla cui guida sì erano affidati.

La fretta di arrivare a Roma non impedì loro però di approfittare di quelle che erano le meraviglie della provincia di Viterbo: le « delizie » di Bagnaia e il castello di Caprarola.

Continua infatti Mantio; « Visitammo anche un luogo chiamato Bagnaia, costruito dal Cardinal Gambara per piacere e delizia, dove ci vennero offerti motivi di diletto e godimento in misura non minore che nella villa di Pratolino del Granduca di Toscana; sebbene, infatti, i! luogo sia più piccolo, contiene anche una riserva di caccia assai adatta, in cui. valendoci di quei cani da caccia dei quali in Europa si fa grandissimo uso, stanammo della selvaggina e la prendemmo »(14).

Fermiamoci su questa notazione per fare alcune considerazioni. Innanzitutto, occorre spendere qualche parola sul cardinal Gambara, quel singolare prelato che sembra riassumere in sé tutto lo spirito dell’Italia rinascimentale. in procinto di essere sommerso dall’ondata della Controriforma.

Villa Lante STEMMA GAMBARA naturaeartificio.itGian Francesco Gambara, figlio di Brunoro dei conti di Gambara. una delle più illustri e antiche famiglie nobiliari di Brescia, non fu a caso nipote del gran cardinale Uberto e della raffinata poetessa petrarchista Veronica Gambara. Addottoratosi a Padova e a Perugia, nominato Vescovo di Viterbo nel 1566 e Grande Inquisitore, fu uomo di religione, ma anche di profonda cultura, e, insieme ad Alessandro Farnese e a Ferdinando Medici, fu tra i cardinali più ricchi e più esperti di cose d’arte (15).

Nel 1585, quando ospitò i legati giapponesi, non era più Vescovo di Viterbo, ma aveva mantenuto il possesso di Bagnaia, in cui aveva fatto abbellire il palazzo vescovile e costruire buona parte della splendida villa unita al « Barco », la riserva di caccia già esistente. Tanta affezione dimostrò al luogo, che proprio in quegli anni impose al comune di Bagnaia la costruzione di una Hostaria per l’alloggio dei forestieri, per maggior decoro del borgo, che ne era privo (16).
Il suo viso ci appare, in un ingenuo ritratto di anonimo (17), dominato da un'ampia fronte e da grandi occhi brillanti, che esprimono intelligenza e avidità di piacere. Naturalmente, non si tratta di piaceri volgari, ma di quell’amore per le cose belle e raffinate che produsse gli splendori artistici della civiltà del Quattrocento e del Cinquecento in Italia. Una concezione edonistica della vita che non era priva di spiritualità, ma che non poteva essere compresa dai severi riformatori del calibro di un Carlo Borromeo, da cui infatti il Cardinal Gambara ebbe fieri rimproveri per aver « sprecato » ricchezze ed energie nella costruzione della palazzina di Bagnaia e delle circostanti « delizie », di cui meritatamente entusiasti si mostrano i visitatori giapponesi. Possiamo facilmente immaginare lo spettacolo offerto in quel giorno di marzo agli occhi curiosi degli abitanti del borgo, certamente accorsi in folla a vedere il corteo proveniente da Viterbo.

Hasekura in Rome 1Per aiutare la fantasia, possiamo ricorrere ancora all’osservatore veneziano, che ci ha lasciato una descrizione minuziosa dell’aspetto fìsico e dell’abbigliamento degli ambasciatori giapponesi; « In quanto al corpo, sono di statura piccioletta, di colore olivastro, hanno gli occhi piccioli, le palpebre grosse, il naso alquanto largo nel fine, ma di aspetto ingenuo e signorile, che non ha niente del Barbaro. Nelle maniere sono civili, cortesi e modesti, fra di loro si portano molto rispetto, servando sempre nell'andare il medesimo ordine... sono di buono ingegno e di prudenza senile, e molto accorti: nel conversar con Prelati, hanno tante creanze che paiono allevati in Italia, notano bene ogni cosa che veggono, ma non si meravigliano molto, in che mostrano animo grande e nobile... Vestono di panni di seta molto leggieri, come il Taffettà o Ormesino, tessuto di varii colori bellissimi con diverse sorti di fiori, uccelli e altri animali del Giappone, portano mezzi stivaletti o borzachini di certa pelle tanto sottile e pastosa, che starebbero in un pugno, sono colorati e lustri, che paiono di seta, tutti d’un pezzo, con una sola apertura, che allacciano con cordelle. Il piede di quelli stivaletti è a guisa di quei guanti, che hanno il dito grosso separato, e gli altri uniti; le scarpe sono come quelle de’ Frati Cappuccini, senza calcagno, acute in punta; per tomara hanno un sol cordone, che cuopre appena le punte delle dita; di maniera che a quelli che non hanno l’uso, pare impossibile il camminare con quelle: portano una veste lunga di seta, quale cacciano nelli calzoni fatti alla marinaresca, lunghi fino al tallone, e uniti in modo fino al fine, che paiono una veste: e questi talmente stringono con la veste sopra i galloni, che pare tatto un vestimento: portano oltre di ciò una banda di seta ben larga su la spalla destra e sotto il braccio sinistro, al modo de nostri soldati... » (18).

Una descrizione, nonostante il tono sia spesso di compiaciuta meraviglia, attentissima ed efficace, che ci permette di riconoscere in tutti i particolari l'abbigliamento tipico dei nobili giapponesi: dai « tabi » (gli «stivaletti» con l’alluce separato) alla « hakama » (i « calzoni alla marinaresca »). Un abbigliamento che certamente dovette essere una delle maggiori fonti di curiosità, per il suo esotismo, tanto è vero che tra i regali fatti dal Papa agli ambasciatori vi furono poi dei ricchi abiti alla moda italiana: non solo un dono, ma un mezzo per stornare un’attenzione evidentemente troppo indiscreta da parte del popolo romano.

Il fastoso e colorato corteo attraversò il borgo di Bagnaia e si diresse verso la riserva di caccia e i giardini del cardinale. Nel dialogo del « De missione » riguardante la villa medicea di Prato litio, Mantio si è già ampiamente soffermato nella descrizione delle « delizie » che i signori italiani del ’500 amavano costruire intorno alle loro ville: scenografici giardini ideati per dilettare i sensi e lo spirito. Ha ampiamente informato i suoi ascoltatori sulla ricchezza e la bellezza delle abitazioni, affrescate da grandi pittori e lussuosamente arredate, e sulla amenità dei giardini pieni di prospettive illusionistiche e di fontane architettonicamente costruite o emergenti all’improvvivo dal verde con sorprendenti giochi d’acqua.

Tale era la villa di Bagnaia, detta poi Villa Lante dal nome dei successivi proprietari; vedendola oggi, anche solo in fotografia, si comprenderà facilmente quale effetto potesse produrre su un visitatore della fine del Cinquecento. Occorrerà tener presente, però, che nel 1585 solo una delle due palazzine gemelle, che oggi inquadrano simmetricamente il giardino all’italiana, era già stata costruita: ed è appunto quella detta « palazzina Gambara », sul lato che confina con il « Barco ». La grande fontana che domina il quadrato del giardino all’italiana era, secondo la descrizione di Michel de Montaigne che la vide nel 1581, composta di una piramide da cui si riversavano zampilli d’acqua; e altri zampilli sorgevano dalle navicelle ancor oggi esistenti nei quattro specchi d’acqua circostanti alla fontana (19). Proprio dell’abbondanza di acque e di fontane gli ambasciatori giapponesi furono in Italia maggiormente ammirati, come si rileva dalle loro descrizioni.

Mantio però non si sofferma sulle bellezze di Bagnaia, presumendo che i suoi ascoltatori possano facilmente immaginarle dalle cose già dette prima: preferisce invece ricordare quella che deve essere stata, per i suoi gusti di giovane aristocratico, l’attrazione maggiore della giornata: la caccia.

Il « Barco » di Bagnaia era stato creato, come riserva di caccia, ai primi del Cinquecento dal Cardinale Riario, facendo recintare le terre vicine al castello di Bagnaia. Come e che cosa vi avranno cacciato gli ambasciatori giapponesi?

Possiamo citare un altro passo del dialogo, in cui Michele passa in rassegna, con una precisione che testimonia dell’acutezza con cui gli ambasciatori osservarono i costumi degli Europei, le abitudini venatorie dell’epoca: « Per quanto riguarda la caccia e l’uccellagione, credo in verità che gli uomini Europei facilmente oltrepassino in eccellenza tutte le altre genti... sono soliti procurarsi cani da caccia di vario genere, come Levrieri, Molossi, Corsici, Gallici, e altri simili, con i quali si cacciano bestie selvatiche di genere ugualmente vario, appunto, orsi, cinghiali, lupi, cervi, dami, conigli lepri, e molti altri animali, che nascono in Europa, e secondo la diversità della cacciagione, utilizzano anche cani diversi. Alcuni infatti stanano le bestie, altri le stancano con la corsa e le raggiungono, altri combattono con loro con forza e vigore, e spesso mirabilmente le fanno a pezzi e le sbranano. E tutti questi generi di caccia riempiono di straordinaria gioia gli uomini europei, che, portati da cavalli velocissimi, nello stesso tempo inseguono le fiere più grandi e spesso le trapassano con i loro spiedi, e riportano a casa con grande piacere un’egregia preda. In tutte le cose che riguardano tanto l’uccellagione quanto la caccia, non c’è dubbio che vengono sostenute grandi spese dagli Europei. Inoltre, (per conservarle con maggior cura, è abitudine che la maggior parte dei principi e dei signori abbiano nei boschi e nelle selve delle riserve di grandissima ampiezza, circondate da un vallo o da un muro, nelle quali sono contenute bestie selvatiche di ogni specie; e cacciano queste quando gli piace, con grande diletto. Oltre a queste, ne hanno spesso anche altre più vicine alle città, in cui fanno costruire molti stagni, uccelliere e simili luoghi di piacere, e vi vanno spesso per ricreare lo spirito: per non dire ora dei bellissimi giardini uniti alle cose stesse... » ( 20).

È probabile quindi che gli ospiti del Cardinal Gambara, avendo usato i cani, abbiano catturato lepri, caprioli o cinghiali, che sappiamo presenti nella riserva (21); dalle parole di Mantio non sembra di poter ricavare che avessero cacciato anche uccelli (c’erano beccafichi e starne), dato che l’uccellagione era praticata attraverso l’arte della falconeria: se ne parla esplicitamente a proposito della caccia effettuata nella riserva del Granduca di Toscana, ma non a proposito di quella di Bagnaia.

Oltre a questa attività, la villa di Bagnaia riservava però un particolare più interessante. Prosegue Mantio: « Trascuro di descrivere i giardini, le fontane e gli altri elementi di bellezza... e parlerò solo di uno strumento musicale, che si chiama clavicembalo e a buon diritto colmò di grande meraviglia gli animi nostri. È quello lungo sei palmi, largo quattro, di un palmo di altezza, e vi sono disposte delle aperture per far uscire l'aria in modo vale che, con il loro adatto movimento, premuti i tasti corrispondenti, vengono emessi i suoni e le voci di numerosi strumenti diversi l’uno dall’altro: così che, variando l’emissione dell’aria, più di cento generi di toni vengono emessi in maniera soavissima. E se invece vuoi udire soltanto strumenti singoli, con facilità ascolterai dolci suoni, ora di citara, ora di lira, talora di organo, talvolta di fistole, ora di tube, infine di sambuca, di testuggine, di barbito, di salterio e di qualunque altro strumento musicale. La perizia di quello di cui parliamo è dunque tale che, sia che tu voglia udire molti suoni insieme, oppure questi o quelli isolatamente, lo otterrai con la massima facilità: e questo è stato scoperto e inventato da un certo artefice Veneto, uomo di massimo ingegno. È aggiunta a quest’opera una cassa costruita a somiglianza di uno stagno, che ha da un lato e dall'altro otto ricettacoli, e tutte le volte che dallo strumento viene emesso quel suono che chiamiamo suono di guerra, i ricettacoli vengono aperti dall’aria, delle triremi artisticamente costruite scendono a battaglia, le trombe suonano, i remi vengono spinti avanti e indietro, sparano i cannoni, e insomma viene offerta agli occhi una meravigliosa finzione di battaglia e di lotta, e tutto ciò viene prodotto dalla forza del soffio variamente regolato, come abbiamo detto, sull’acqua » (22).

C’era quindi nella villa di Bagnaia uno strumento che appare meraviglioso non solo a Mantio: dice Leo: « Ogni giorno ci racconti cose più mirabili, e già non dubito che gli uomini europei siano superiori agli altri per ingegno; e tuttavia, se non tenessimo te e i tuoi compagni per testimoni attendibilissimi, tutte queste cose non considererei altro che immaginarie » (23).

A questa obiezione, Mantio protesta che non c’è alcuna ragione di dubitare, dato che essi riferiscono solo quelle cose che abbiano in qualche modo toccato con mano.

E, in effetti, i giovani inviati dei signori di Kyushu non solo avevano visto personalmente gli strumenti descritti, ma avevano anche imparato a suonarli. In un altro brano del libro redatta da De Sande (24), assistiamo ad una discussione sulle differenze tra la musica giapponese e quella europea. Michele afferma che gli strumenti europei producono una dolcissima armonia: uno dei giovani che lo ascoltano, Lino, obietta, un po’ scettico, che pur avendo ascoltato gli ambasciatori stessi suonare quegli strumenti, non ha percepito quella grande dolcezza. La risposta di Michele è divisa in due parti. Innanzitutto, afferma che occorre tener conto dell’abitudine: ad orecchie non avvezze ai suoni europei, questi appaiono poco gradevoli. Lo stesso accade per tutte le cose, che possono essere apprezzate nel loro giusto valore solo quando vi si è abituati. La seconda parte della risposta è una trattazione tecnica delle differenze tra le due tradizioni musicali: la musica europea, diversamente da quella giapponese, è caratterizzata dalla varietà di toni e di suoni, che vengono composti insieme armonicamente. Da ciò deriva, secondo le parole di Michele, il fatto che gli Europei abbiano elaborato una vera arte musicale, « un’arte nuova e unica, di comporre i toni in tal maniera e di temperarli tra loro, che essi intraprendono con amore fin dalla più tenera età e, facendo in essa grandi progressi, la considerano un degno modo di vivere » (25). E in effetti, il Cinquecento è in Europa, e soprattutto in Italia, un secolo di grande elaborazione musicale. Ci sembra il caso di sottolineare l’attenzione dedicata dagli ambasciatori giapponesi alla cultura musicale europea: essi portarono in Giappone strumenti e libri di musica. Con la successiva politica di isolamento del Giappone, durata fino al 1853, questo interesse non ebbe ulteriori sviluppi. Oggi, invece, la musica europea è diventata la base dell’educazione musicale in Giappone ed è superfluo sottolineare che vi sono numerosissimi artisti giapponesi nel campo della musica classica e dell’opera lirica. E senza dubbio le parole di Michele a proposito dei musicisti europei si possono oggi applicare a quelli giapponesi.

Lo strumento visto a Bagnaia e ricordato con tanta precisione di particolari da Mantio, univa alla capacità di produrre suoni molteplici la straordinaria attrattiva di quella « battaglia navale » così vivacemente descritta, e che ci fa subito venire in mente il gusto manieristico e poi barocco degli Italiani per il teatro e le macchine sceniche. Lo stesso gusto che nella seconda metà del Cinquecento produsse le « delizie » delle ville medicee e di quella del Cardinal Gambara e ohe preparava le grandi architetture barocche di Roma, lo stesso gusto che senz’altro regolò l’entrata solenne a Roma del corteo degli ambasciatori. Simili « entrate » facevano parte, infatti, del costume italiano ed europeo in genere: occasioni di esibizione di vesti sfarzose e di magnifici cavalli, spettacolo offerto al popolo e manifestazione del potere delle corti. L’ordine dei cortei era attentamente regolato in base alle precedenze legittime e al cerimoniale ed i percorsi accuratamente studiati e prestabiliti, spesso con speciali apparati costruiti in alcuni punti del percorso per abbellirli e renderli più splendidi.

Partiti da Viterbo il 21 marzo e dopo una breve sosta a Caprarola, nella villa del cardinal Farnese, la sera del 22 gli ambasciatori arrivarono finalmente alle porte di Roma, con uno di loro, Nakaura Giuliano, stanco del viaggio e « alquanto infermo ». Soltanto il giorno dopo, un sabato, avvenne l’entrata del corteo, con la sfilata per le strade di Roma e il solenne ricevimento in Vaticano. Gli ambasciatori cavalcavano su destrieri ornati di una qualdrappa nera ricamata in oro, e vestivano di seta bianca ricamata nei modi che abbiamo visto descritti dal Meietto (26). Secondo Io stesso Veneziano, il malato Nakaura, pur non potendo prendere parte al corteo, non volle rinunciare a vedere il papa e fu portato in Vaticano per altre vie, in carrozza (27).

Durante il ricevimento furono consegnate le lettere dei daimyo e pronunciati i discorsi ufficiali, che sottolineavano l’eccezionaiità dell’avvenimento. Poi Gregorio XIII ricevette privatamente gli ambasciatori, che si trattennero a Roma fino al 3 giugno 1585.

Assistettero quindi alla morte di Gregorio, avvenuta il 10 aprile, e al conclave da cui uscì eletto Sisto V. Ricevuti anche dal nuovo Pontefice, e insigniti della cittadinanza onoraria romana, Ito Mantio e i suoi compagni ripartirono poi per un viaggio che doveva portarli attraverso le corti italiane, da Napoli a Ferrara, a Venezia, a Milano, fino a Genova, da cui si imbarcarono finalmente verso la Spagna.
Il 13 aprile 1586 ripartirono da Lisbona verso il Giappone, dove arrivarono nel giugno 1590.

YASUNORI GUNJI

AVVERTENZA

I - La traduzione dal latino dei brani citati del « De missione » è della prof.ssa Carmen Gunji Covito, che ha operato anche la revisione linguistica del presente testo.

II - Tutti i nomi giuapponesi citati nel testo sono dati nell'ordine normale giapponese, con il cognome che precede il nome.

Questa monografia di Yasunori Gunji, giapponese studente di lettere in Italia è stata premiata il 31 agosto 1980 in una cerimonia nel « Quadrato della Villa Lante ». Con le Autorità comunali e provinciali erano presenti i Sigg.: Dr. Morihito Okatsu, professore emerito dellUniversità di Tokio e Direttore dell'istituto Giapponese di Cultura in Roma; Dr. Masaharu Yamada, Vicedirettore; Dr. Naoji Matsubara, Segretario generale del predetto Istituto.

La manifestazione era stata organizzata, con il patrocinio dell'Azienda Autonoma di Cura Soggiorno e Turismo di Viterbo, dall'Associazione « Amici di Bagnaia - Arte e Storia ».

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(1) « De missione legatorum Iaponensium ad Roman am Curiam, rebusque in Europa ac toto itinere animadversis dialogus, ex ephemeride ipsorum legatorum collectus et in sermonem latinum versus ab Eduardo de Sande Sacerdote Societatis Iesu », Macao, 1590, dialogo XXI.
Nelle note successive sarà indicato come: « De Missione », cit. Cfr. la versione giapponese: «Kenòshisetsukenbuntaiwaroku», Tokyo, 1942.

(2) « Relatione dei viaggio et arrivo in Europa et Roma de’ principi Giapponesi, venuti a dare obedienza a Sua Santità l’anno MDLXXXV », a cura di Paolo Meietto, Venezia, 1585.
Nelle note successive sarà indicato come: Meietto, « Relatione », cit.

(3) Inoue Kiyoshi. « Nihon no Rekishi », Tokyo, 1963, vol. I pag. 274.

(4) Inoue Kiyoshi, op. cit., pag. 275.

(5) Vedi il testo delle lettere, riportato in versione italiana nella: « Descrittione dell'ambasciaria dei regi et principi del gran Regno del Giappone, venuti nuovamente a Roma, a render obbedienza alla Santità di Gregorio XIII Pontefice Massimo», Venezia, 1585.
In questa relazione, di Onofrio Farri, sono contenuti anche i testi dei discorsi pronunciati durante il ricevimento ufficiale in Vaticano dal gesuita Consalvi a nome degli ambasciatori e dal Segretario dei Brevi, Antonio Boccapaduli, a nome del papa.

(6) Inoue Kiyoshi, op. cit., pag, 232.

(7) Secondo il Von Pastor, l’atto di sottomissione fu voluto dal Visitatore gesuita Valignani, organizzatore della delegazione, per dar prova « che il suo energico appoggio alla missione giapponese aveva portato buoni frutti » (L. Von Pastor, « Storia dei Papi », Roma 1955, vol. IX, pag. 725).
Questo è senz'altro possibile, ma non bisogna trascurare l’interesse dei daimyo, che difficilmente avrebbero accettato di infeudare al Papa i loro domini, se non vi avessero visto un espediente politicamente efficace per affermare la loro autonomia nei confronti del potere centrale.
Il periodo che va dalla metà del XV secolo alla metà del XVI circa è caratterizzato in Giappone dalla presenza di autorità locali autonome, i daimyo; essi governavano dei territori suddivisi in feudi, con autorità sovrana. Anche se non avevano più un vero potere politico, rimanevano però a Kyoto sia l’imperatore che lo Shogun (il governatore militare), almeno come simboli dell'unità del paese. Verso il 1560 i daimyo più potenti avevano costituito degli stati regionali, sottomettendo i più deboli. Uno dei capi regionali, Oda Nobunaga, riuscì nel 1573 a conquistare la stessa capitale Kyoto e iniziò un’opera di unificazione (da lui fu ricevuto e benevolmente accolto il Valignani, che però non riuscì a convertirlo al Cristianesimo). Il suo successore, Toyotomi Hideyoshi, portò a termine l'unificazione del Giappone, mantenendo però il sistema dei daimyo: si alleò con i più potenti e sottomise militarmente i più deboli. Nel 1587 Hideyoshi ottenne il controllo diretto del porto dì Nagasaki e a quest'anno risale il suo editto di proscrizione del Cristianesimo. La proibizione definitiva si ebbe poi con il nuovo Shogun ed effettivo signore del Giappone, Tokugawa Ieyasu. Per altre notizie, cfr. ad esempio: J. W. Hall « L'impero giapponese », Storia Universale Feltrinelli, Milano 1969.

(8) O. FARRI, « Descrittione », op.cit.

(9) Cfr. Meietto « Relatione » cit.  e Von Pastor, op. cit.

(10) « De missione » cit. Dialogo XXI.

(11) G. P. Maiffi, « Degli Annali di Gregorio XIII », Roma 1742, vol. II, pag. 393.

(12) Von Pastor, op. cit., pag. 728.

(13) Meietto, « Relatione », cit.

(14) « De missione », cit., dialogo XXI.

(15) Vincenzo Frittelli, « La bolla delle gabelle, le delizie di Bagnaia e i cardinali Gambara e Borromeo ». da « Lunario Romano 80 » pag. 148. Di qui sono state tratte anche le notizie seguenti su Carlo Borromeo.

(16) V. Frittelli, « Bagnaia, cronache d’una Terra del Patrimonio », Roma 1977. pagg. 61-62.

(17) Sta in Pompeo Litta, «Famiglie celebri d’Italia », vol. X, Milano.

(18) Meietto, « Relatione », cit.

(19) Per le notizie relatrive alla Villa e al Barco, cfr. « Bagnaia e la Villa Lante », a cura dell'Associazione Amici di Bagnaia, 1979.

(20) « De missione », cit., dialogo XI.

(21) V. Frittelli, « Bagnaia »,cit. pagg. 191-192.

(22) « De missione », cit., dialogo XXI.

(23) Ibidem.

(24) « De missione », cit., dialogo XI.

(25) Ibidem

(26) Cfr. anche Von Pastor, op. cit. pag. 727.

(27) Meietto, « Relatione », cit.

 

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