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L'ASSASSINIO DI FRANCESCO PERETTI E LA CRUENTA FINE DI VITTORIA ACCORAMBONI: UNA SCONVOLGENTE TRAGEDIA SUL FINIRE DEL CINQUECENTO ITALIANO

Un manoscritto senza data conservato negli archivi montaltesi1 riferisce sulla tragica fine di Vittoria Accoramboni, 'la folgorante bellezza eugubina',2 sposa di Francesco Peretti, (nipote del Cardinal Montalto, Sisto V), assassinato a Roma3 nei pressi del Quirinale (Monte Cavallo). Vittoria verrà uccisa a sua volta a Padova dove si era stabilita a Palazzo Cavalli, col secondo marito Paolo Giordano Orsini, Duca di Bracciano.

È una storia cruenta su cui sono stati versati davvero 'fiumi d'inchiostro', e che vogliamo qui proporre all'attenzione dei lettori organizzando l'esposizione su quattro percorsi:

1) quello divulgativo, della narrazione dei fatti, per la quale abbiamo scelto la trascrizione dei vari capitoli dall'opera Storia della vita e geste di Sisto V..., 1754, di Casimiro Tempesti;

2) quello letterario che trae motivo da diversi sonetti attribuiti a Vittoria e da un Lamento o Disperata in morte del primo marito Francesco Peretti;

3) quello storiografico per una visione d'insieme, nel tempo, sulla trattazione della drammatica vicenda;

4) quello estetico, considerata la conclamata avvenenza di Vittoria.

Francesco, figlio di Camilla Peretti e di Giovan Battista Mignucci, apparteneva ad una delle famiglie 'storiche' di Montalto:

genealogy

Vittoria apparteneva, parimenti, ad una famiglia di spicco della Gubbio del Cinquecento:

genealogy1

Famiglia sulla quale però pare accanirsi la sventura. Infatti un Accorimbono (di Giovanni), Podestà di Firenze nel 1324-26-36, per qualche tempo Signore di Tolentino, verrà ucciso nel 1340 5; Vittoria uccisa a Padova il 22 dicembre 1585 e Mons. Lucantonio Accoramboni, 8° Vescovo di Montalto dal 1711 al 1735, verrà trovato morto la mattina del 1° settembre 1735 con una larga ferita alla testa6.

Nello stemma della famiglia Accoramboni compare in campo rosso un grifo d'argento diritto ed attraversato da quattro sbarre azzurre, che tiene tre monti e la spada7.

In quello del Vescovo Lucantonio risultano conservati i principali elementi araldici, mentre compaiono tre stelle in campo.

Introduzione8

Così scrive l'erudito montaltese Pier Simone Galli (1626-1712):

Accoramboni (Vittoria) si creduto dal Quadrio (1), e dal Mazzuchelli (2) che questa nobil Dama di Gubbio (appellata dal Riccoboni (3) venustissima, ed ingegnosissima Donna (4) avesse nome Virginia: ma noi crediamo, che dall'uno, e dall'altro si prenda su ciò abbaglio, che fuor d'ogni dubbio debba chiamarsi Vittoria.
Tale sicuramente si fù il nome dell'infelice consorte di Francesco Peretti, Nipote di Sisto V. La cui tragica storia troppo nota per doversi da noi qui trasandare, e può da ognuno vedersi presso il detto Quadrio, e il Tempesti, scrittore della vita di Sisto, e presso gli storici contemporanei, che diffusamente la raccontano.
Ora, che questa illustre donna avesse anche il merito di poetessa, apparisce, a pentimento ancora de' mentovati scrittori, da parecchie Rime, che leggonsi trà quelle di Alessandro Bovarini, del Cavalier della Selva, ed altrove, col nome peraltro di Virginia N., sotto cui si ha inoltre un Lamento, o una Disperata in terza Rima esistente in un manoscritto dell'Ambrosiana. In questo componimento si scagliano gagliarde imprecazioni contra coloro, che uccisero barbaramente il di lei Marito Francesco Peretti la cui morte vi è descritta con tali minute circostanze, e con tale amarezza di animo, che non lascia luogo a dubbitare, esser vero parto della stessa di lui Moglie Vittoria Accoramboni, benché dal copista ne fosse scambiato il nome in quello di Virginia. Ciò è così evidente, che nel detto codice di Milano, dove si hanno le Rime, composte in morte di Vittoria moglie di Paolo Giordano Orsini, secondo di Lei Marito, vedesi ancora annessa la di lei vita accuratamente descritta.
Con una notizia tratta dalle carte del ch.° Lancellotti, possiamo noi aggiungere al Quadrio, che il Lamento suddetto in terza Rima trovasi stampato dopo le: Rime di diversi Autori nella morte della Signora Vittoria Accoramboni Orsini, nuovamente poste in luce. Ancona 1586 in 8., e detta stampa scrive il medesimo Lancellotti di aver veduta in Jesi presso il Signor Marchese Colocci. Il miserando caso di questa Signora, uccisa in Padova per mano di sicarj, fù compianto da molti altri Poeti, e Scrittori di quel tempo, e segnatamente da Giovan Battista Brendola Vicentino col seguente libro: II miserabile, e compassionevole caso della morte dell' Ill.ma Sig.a Vittoria Accoramboni. successo nella città di Padova, col nome, e Cognome degli Malfattori, e come sieno stati giustiziati conforme al delitto loro. Con un Sonetto, ed una Canzone nel fine fatti medesimamente sopra la morte di detta Signora per Giovan Battista Brendola Vicentino. In Brescia 1586 in 4. Nella Biblioteca Vaticana v'ha la figura Astronomica di Vittoria Coramboni Mog!ie del Duca di Bracciano.(5)

(1) vol. II, P. I, pag.259.
(2) Scrittor d'Italia, vol. I, P. I, pag. 81
(3) Lib.I, Cap. 12.
(4) anche Girolamo Catena nelle sue Poesie, impresse Papi e C. apud Hieronymus Bartolum 1577. In 8., loda la straordinaria avvenenza di questa Signora.
(5) 1314 cod. Cartaceo. In 4 alla p. 433. Bibl. Picen(a) Tomo I lett. a pag. 31 32.

(Nella storia particolare di Montalto, va ricordato Mons. Paolo Orsini, 3° vescovo della Diocesi dal 1608 al 1640 (che acquistò dagli eredi del Patriarca Biondi il palazzo dell'Episcopio, in seguito Collegio Salvatoriano).

Sabato 11 dicembre 2004 ho effettuato una ricerca presso la Biblioteca Storica del Comune di Fermo, dove ho rinvenuto, di ANTONIO RICCOBONI, citato da Pier Simone Galli, il testo De Gymnasio Patavino in cui, al Liber Sextus, l'autore tratta De horribili Spectaculo quod studiosis Gymnasij Patavini contingit videre9. Il testo stampato nel 1598, quindi molto vicino ai fatti, solo 13 anni dopo l'assassinio di Vittoria:

1585. Studiosi iuvenes Gymnasii Patavini spectaculum per/quàm horribile viderunt, quod Patavij factum est pro/pter crudelissimam caedem Virginiae Acorambonae, mulieris / venustissimae, & ingeniosissimae, atq. altissima mente praedi/tae; cuius maximum infortunium, tacere non possum, quin / hic recenseam. Uxor fuerat Francisci Pyreti ex Sisti V. Pon/tificis Max. fratre10 orti: cumq. is in Pontificatu Gregorij XIII. / de medio subtractus esset, post multas magnasq. difficulta/tes Paullo lordano Ursino, Duci Arcenni, nupterat. Statim / autem ut Sistus V. ad altissimum pervenit gradum Pontifca/tus, eum Paullus lordanus quamvis de caede eius, qui modo / nominatus est, Francisci Pyreti aliquantisper suspectus, ad / pedes obiectus, omni coluit reverentia, ab eoq. benigne ex/ceptus est, huiusmodi prolatis verbis; Non pertinere ad Si/stum V. ulcisci iniurias Cardinali ex Monte Alto illatas: Iret / igitur ab omni impetu securus: sed caveret in primis, ne in Du/catum suum exules, & sicarios, sicut solitus erat, reciperet: / alioqui pro comperto haberet, in se gravissime animadver/sum iri. Quibus verbis aliquantulum perterritus in Venetam / Remp. sibi amicissimam cum uxore charissima, totaq. fami/lia sua se recepit, ac Patavij per aliqout menses fuit; cumq. / Saloum se contulisset, ut illius loci amoenitate perfrueretur, / ibi è vita excelsit, testamento uxori suae relictis centum milli/bus numum aureorum; quae summa cum ex eius bonis hau/rienda esset, orta controversia de bonis mobilibus cum Lu/dovico Ursino, agnato Paulli lordani, militum in Rep. Vene/ta Tribuno, tuncq. ad Corcyrae custodiam designato; noctu / in urbe Patavio, ubi ipsa domicilium elegerat prope templum / Eremitarum ad moenia, à multitudine hominum armatorum / domum per vim ingressorum saevissime, miserrimeq. necata / est una cum Flaminio fratre suo, qui post mortem Ducis ad / eam venerat consolandam. nam alter eius frater, nomine Mar/cellus, natu maior, casu ea nocte aberat, ita ut propter absen/tiam suam interfici non potuerit. Et vero suspectus fuit de ea / caede Ludovicus Ursinus cum permultis sicarijs, quos apud / se perpetuo habebat: & nihilominus Patavij permanere au/sus est, unde commode abire poterat, sola auctoritate Ursini / nominis fretus; donec unus de Advocatis Reip. quos appel/lant Advocatores, Aloysius Bragadenus, propter facinoris / atrocitatem missus, una cum Praesidibus urbis, Praetore, & / Praefecto, eum per publicos administros vocavit, ut spatio / unius horae adesset; negantemq. se venturum, ac domi, ubi / habitabat, contra omnem vim publicam se munientem, ma/gnis tormentis militaribus (quod novum atq. admirabile fuit) maxima cum populi multitudine ad aeris campani sonitum con/gregata aggressus est ipso die Natali Jesu Christi, eversaq. ma/gna parte illius domus, quae erat ad Di.Augustini, ab aurora, / usq. ad vigesimam primam diei horam absessae, atq. oppugna/tae, necatisq. tribus ex praecipis comitibus eius, qui cum an/teriori pariete diruto conciderunt, statimq. obtruncati sunt, / tandem aliquando ad deditionem compulit, alioqui vel rui/nis aedium obruendum, vel, si egressus fuisset, ut facturus es/se videbatur, atq.cum comitatu suo impetum fecisset, à mul/tis hominum militibus, qui eas aedes circumiverant, trucidan/dum. Deditus igitur, in carcere, noctu, ita iubente Senatu, strangulatus est, confecto testamento, ac relictis armi suis / Reip. Venetae, quibus positis inter Xvirum11 arma illa verba / subscripta sunt; ARMA à Ludovico Ursino Reip. legata, / ingenuum iustae necis testimonium. Eius vero sicarij septem/decim in plateis suspendis vitam finiverunt: alij mire ex/cruciati, & in quattuor partes dissecti: alij publicis triremi/bus alligati: alij ad perpetuos carceres condemnati. Et Marcellus Acorambonae frater, tamquàm unus de coniuratis ad/versus Franciscum Pyretum, à summo Pontifice postulatus, / atq. à Senatu traditus, cum in Pontificiam ditionem perdu/ctus esset, summo supplicio affectus est.

L'assassinio di Francesco Peretti

Pietro Andrea Galli (1690-1772), uno dei cinque figli di Pier Simone, ne da la versione che segue.

Relazione della morte del Sig. Francesco Peretti, consorte della Sig. Vittoria Accoramboni, la quale indi passò alle seconde nozze con Don Paolo Giordano Orsini.12

- Vittoria Accoramboni, figlia di Claudio Accoramboni nobile di Gubbio Città nello stato d'Urbino fu sino dalla prima giovinezza fanciulla, di cui il minor pregio era una rara e straordinaria beltà, possedendo ogni altra eccellenza, che adorni una donna nobile. Fu da molti nobili in Roma, dove stanziava suo Padre, ambito il maritarsi seco. Ma a molti pretendenti tal parentado fu preferito Francesco Peretti, figlio di Giovan Battista Mignucci di Montalto, e di Camilla Peretti parimenti di Montalto, sorella del Cardinal Peretti (poi Sisto quinto), dal quale era essa tanto amata, che non avendo detto Cardinale Nipoti, si adottò i di lei figli per fratelli, cioè Francesco ed una femina, chiamata Maria Felice, dandogli il cognome, arma ed eredità.

- Indusse li Parenti di Vittoria a questo Matrimonio non solo la dignità Cardinalizia di Montalto, ma la speranza dell'esaltazione del medesimo al Pontificato.

- Entrò nella casa Peretti Vittoria con quelle preeminenze, che a lei (direi, se fosse lecito) furono fatalmente concesse di essere dovunque si volgeva non solo singolarmente ricevuta, ma universalmente amata, né solo da Francesco, il quale sopra d'ogni uso de' Mariti quasi pazzamente invaghito, l'adorava, ma dalla sua Madre Camilla, e dal Cardinal Montalto Zio di Francesco era con tal tenerezza d'affetto veduta, che altro non studiavasi da questi che le soddisfazioni del di lei genio, trattando i di lei Fratelli come suoi propri nipoti.

- Fra quali Ottavio, giovane di singolare onestà, e vivacità di spirito, fu ad intercessione del Cardinale appena di trent'anni nominato dal Duca di Urbino, e creato da Gregorio XIII Vescovo di Fossombruno nell'Umbria.3

- Marcello, giovane di gagliardo cervello, essendo per alcune imputazioni in ira della corte, dalla quale con molto pericolo fuggiva, fu dall'intercessione del Cardinale lungo tempo difeso.

- Giulio, per officio passatone dal detto Porporato, fu accettato al servigio del Cardinale Sforza per nome Alessandro, il quale in poco tempo divenne dispotico del Padrone.

- Finalmente felicissimo poteva dirsi quel maritaggio, se gli uomini sapessero misurare le loro felicità col godimento di quello si possiede, non con l'insaziabilità della speranza, unico scoglio delle più vere felicità, perché cacciandoci bene spesso l'impeto di quella fuori delle cose sicure e presenti, ci trascinano nei precipizi, dietro all'imaginato incerto, che fugge. Certo è, che se qualcuno de' Parenti di Vittoria (come allora forte si sospettò) per ambizione di fortuna maggiore ajutò a liberarla dal primo marito, ben presto si accorse quanto più savio consiglio sarebbe stato il consigliarsi col dovere, e contentarsi delle comodità presenti, da concepirsene, come poi successero, suprema grandezza, e non già con idea fattaci, dall'imaginativa diverse, ed infauste nell'esito.

- Fu a Francesco, che già si trovava in letto con sua moglie presentata una Poliza per mano di una tal Catarina Bolognese Cameriera di Vittoria, e portata da un uomo detto Domenico d'Acquaviva da Fermo, sopranominato il Mancino. Era la Poliza scritta a nome di Marcelle Fratello di Vittoria, il quale amato molto da Francesco in riguardo della sorella, essendo bandito da Roma,14 e venendovi non di meno assai spesso, era solito di alloggiare segretamente con Francesco. Veniva con quella Poliza chiamato con gran fretta da Marcello a Monte Cavallo in luogo particolare, nel quale diceva aspettarlo per accidente urgentissimo.

- Comunicò tutto Francesco alla moglie, e senza più oltre pensare cominciò a vestirsi per andare, non dove credeva, a trovare il cognato, ma dove lo portava la sua sventura. Pertanto vestitosi, ed armatosi della sola spada, già si moveva per andarsene, quando fattaglisi incontro Camilla la Madre con tutte l'altre donne di Casa lo pregarono istantemente più volte, che non uscisse a quell'ora, dicendogli Camilla molte ragioni per rimoverlo, fondate sull'importunità dell'ora, la subita partenza del messo dopo la presentazion della Lettera, e di molti casi succeduti nei presenti tempi Gregoriani, cioè nel Pontificato di Gregorio XIII allora regnante.

- Tutte queste ragioni disprezzò Francesco, massime quando seppe, che il portator della Lettera era stato il Mancino, uomo da lui non solo ben conosciuto, ma beneficato. Partì dunque armato nel modo sudetto, lasciando nel cuore della madre il doloroso presagio dell'infortunio vicino. Già saliva l'infelice il giogo di Monte Cavallo, quando colto da tre archibugiate cadde per terra indifeso; e sopraggiunto da sicarj, fu in più luoghi trafitto da pugnalate finché si assicurarono della sua morte.

- Durissima si, ma non impensata arrivò la nuova dell'infelice successo alla sconsolata madre e moglie, ricevuta con quell'alterazione, che si può credere in simil caso. Ma il Cardinal Montalto senza punto scomporsi di volto o di atto, si vestì subito, e se ne passò al quarto delle Donne, e con ammirabile e prodigiosa intrepidezza dandosi a consolarle, frenò i loro gemiti, ordinando a tutta la corte di non farne dimostrazione alcuna né in voce, né in fatti di questo commiserabile caso, se non con quello si richiedeva l'abito di lutto, il che rese ammirazione a tutta Roma, la quale aspettava da un'uomo gravemente percosso movimenti e dimostrazioni diverse.

- S'incontrò, che il giorno seguente alla morte di Francesco era il Concistoro in Vaticano, ed in Roma tutti credettero, che per quel giorno almeno il Cardinale non fosse andato a tal pubblica funzione; ma s'ingannarono, perché comparve il Cardinale in Concistoro al solito tra i primi, senza vedersi in lui turbamento veruno; anzi a chi dei Cardinali sull'acerbità del caso volle consolarlo rese con rispetto d'immobile costanza meraviglia stupenda, la quale dai provetti della Corte fu per la strada sua interpretata come sopraffina politica, per facilitarsi il Papato, come fu.

- Entrato il Papa in Concistoro, al quale il tutto era già noto, pose gli occhi nel volto del Cardinale, e per compassione fu veduto piangere, senza che il Cardinale si mutasse nel sembiante, o nel colore. Si raddoppiò la meraviglia quando andato al solito nell'istesso Concistoro all'udienza del sommo Pontefice il Cardinal Montalto per trattare molti negozi, Sua Santità prima che ei parlasse si fece vedere con copiose lagrime sugli occhi, colle quali consolandolo, gli promise severissima giustizia. Rese il Cardinal Montalto molte grazie al benigno affetto di Sua Beatitudine, e supplicollo istantemente rendersi servito in non fare inquisizione su quel caso, perdonando egli di buona voglia a chiunque ne fosse stato l'autore, il quale non vi sarebbe mai stato senza il voler di Dio, ed immediatamente passò al discorso de' negozj.

- Osservando il Papa, mentre erano in questi ragionamenti, ed il Cardinale nel volto d'ambedue gli altri Cardinali, che erano presenti, non poteron conoscere mai in lui mutazione alcuna, del che non poco stupirono; costanza, che non solo ad essi, ma anche al sommo Pontefice rese ammirazione infinita, il quale finito il concistoro segreto parlando col Cardinal Boncompagno suo Nipote, gli disse: "II Cardinal Montalto è stato un dotto Frate, ed ora è un buon Cardinale, ma se prima non muore, sarà un gran Papa".

- Fu visitato il Cardinale da tutto il Collegio e Prelatura e Signori della Città di Roma, ma non vi fu alcuno, che si potesse vantare nel passare tale officio, per domestico ed amico che gli fosse, di aver tolto dalla sua bocca un minimo indizio d'alterazione. Notato fu più d'ogni altra cosa il suo congresso col Sig. Don Paolo Giordano Orsini, al quale per molte congetture attribuendosi dalla fama comune il commesso delitto, credevasi non potesse far fronte senza qualche indizio di perturbamento nel suo incontro. Concorse per ciò a questa visita la maggior parte de cortigiani curiosi e politici per essere spettatori del loro presupposto, o testimonj dell'incredibile costanza del Cardinal Montalto, che seppe così bene valersi di essa, che non solo gli Spettatori, ma il medesimo Orsini ne venne ingannato.

- Non lasci Francesco di Vittoria alcuna prole, onde convenne al Cardinale rimandarla a suoi Parenti. Gli donò liberamente tutti i vestimenti, ori, e gioie, che godeva in tempo del marito, lasciandola in libertà di partire in tempo sufficiente a suo comodo. Non passarono molti giorni, che la Vedova e sua Madre si trasferirono nel Palazzo di Don Paolo Giordano, dicendo per sicurezza delle Persone loro, essendo che la corte pareva che la minacciasse, come indiziate di saputa, o consenso loro circa il commesso omicidio; Altri dissero, che parve fosse approvato quello che poi seguì, per effettuare il matrimonio col detto Orsini, e Vittoria, promessogli da questo Signore dopo la morte di suo Marito, e fu opinione comune, che il modo tenuto in questo caso dal Cardinal Montalto fosse la via, con cui si aprì la porta al Papato, avendolo messo in concetto a più d'un uomo, che o per viltà di natali, o per avanzamento di virtù non sapesse, o non volesse, ancorché irritato, nuocere ad alcuno.

- Della morte di Francesco Peretti non ne venne mai in chiaro l'autore, ma si tenne da tutti, che fosse stato Don Paolo Giordano Orsini, di cui era noto l'amore, che prima portava a Vittoria, manifestato a molti segni, che poi finì nel matrimonio con lei contratto per violenza d'amore, essendo per altro la Donna di condizione troppo inferiore a questo Principe. Né bastò a distogliere tal sospetto dal concetto del mondo una lettera, che fra pochi giorni comparve diretta a Mons. Governatore di Roma, scritta a nome di Cesare Palentieri Giovane ardito, che si ritrovava in bando, nella quale diceva "non esser necessario a Sua Signoria Ill.ma prender briga in cercare l'autore della morte di Francesco Peretti, poiché egli l'avea fatto uccidere per alcune contese avute lungo tempo tra di loro. Molti credettero, che della morte del Peretti ne fossero contenti i Fratelli di Vittoria per ambizione di sì illustre Parentado, da concludersi subito che fosse vacato il letto: E sopra tutti ne fu imputato Marcello per l'indizio della Poliza, con cui fu Francesco chiamato, e si parlò fortemente anche di Vittoria, per essere sì presto passata in Casa Orsini con promessa di matrimonio, non parendo verosimile si fosse così in un tratto potuto venire ad armi sì corte.

- Nel Processo, che di ordine del Papa fu formato dal Governatore di Roma si ha solo, che il Mancino, venuto in mano della giustizia, nel secondo esame senza tormenti al 28 Febbraio15 1582 disse, che la Madre di Vittoria fu causa di tutto per via della cameriera Bolognese, onde subito dopo il fatto fu salvata in Bracciano, e che gli esecutori del delitto furon Marchionne di Gubbio, e Paolo Basca di Bracciano, Lancie spezzate d'un Signore, il cui nome per degni rispetti non fu posto in carta. A questi stessi rispetti aggiunse le preghiere dell'Eminentissimo Montalto, che istava non si andasse in tale inquisizione più oltre, fecero, che soppresso il negozio in eterno silenzio, il Mancino fu rilasciato fuori delle carceri con precetto sotto pena della vita, che non potesse partire dal suo Paese senz'ordine espresso del Fisco.

- Seguì la liberazione di costui nel 1582 il dì di S. Lucia, che per essere natalizio del Cardinale, si credé per sua intercessione fosse prudentemente terminato questo negozio, che tirato avanti, poteva cagionare disturbi senza frutto pel debile governo di Gregorio XIII regnante, e per l'autorevol potenza della Casa Orsini.

- Acquietata in tal modo la corte, non volle però il Papa acconsentire, che l'Orsini sposasse la detta Sig. Vittoria; anzi avendola tenuta per qualche tempo sequestrata, precettò l'una e l'altro, che non venissero al maritaggio senza licenza sua e de' suoi successori. Morì intanto il Papa, e D. Paolo Orsini avuto parere da diversi, che il precetto per morte di chi l'impose era spirato, risolvé di sposarla prima che fosse creato il nuovo Papa, ma differendone l'esecuzione, parte per aspettare il consiglio o consenso de' Fratelli, de' quali Ottavio Vescovo non volle prestarlo, parte per non credere dovesse succedere sì presto, come successe, la nuova elezione del Papa, non venne all'effetto dello sposalizio se non quel dì medesimo della creazione del Pontefice, che fu l'Eminentissimo Montalto; o caso fosse questo, o effetto premeditato, per far vedere col disprezzo della somma Podestà la continuazione del poco conto tenuto da lui della corte in tempo di Gregorio XIII.

- Offese non dimeno l'animo di Sisto V (che tal nome si pose il Montalto) ma non diede però altro segno, se non che essendo D. Paolo Orsini venuto l'istesso dì fra la turba degli altri Signori Romani a baciare i piedi al nuovo Papa con animo di spiare dal suo volto ciò che si poteva ripromettere o temere da quell'uomo non ben sin'allora conosciuto, si accorse non esser più tempo di scherzare, perché il nuovo Papa guardandolo alla sfuggita, mai non rispose ad alcuna parola di congratulazione, che gli fé D. Orsini.

- Risoluto pertanto di scoprire qual fosse l'animo del nuovo Pontefice verso lui, per mezzo del Cardinal de Medici, e dell'Ambasciador Cattolico, chiesta ed impetrata udienza da S. Santità in Camera, con premeditata ed acconcia orazione, senza far menzione alcuna delle cose passate, congratulossi seco della nuova dignità, e gli offerì come fedelissimo vassallo e Servidore tutto il suo avere e forza.

- Udillo con straordinaria serenità il Papa, ed al fine risposegli / Nessuno più di sa (sic) desiderare, che la vita di Paolo Giordano Orsini fosse per l'avvenire degna del sangue Orsini, e di un vero Signor Cristiano. Quale essa fosse stata per il passato verso la Santa Sede, e verso la Casa e persona sua, nessuno meglio poteva ridirglielo che la propria coscienza. Di una cosa però fosse certo, che siccome Egli volentieri perdonava a quanto avesse fatto contro Francesco Peretti, e contro il Cardinal Montalto; così non essergli giammai per condonare quanto avesse operato, o fosse per operare contro Sisto V; e che per tanto andasse a far partire di Casa, e da suoi Stati tutti i banditi e malfattori, che vi aveva e teneva, e che ciò senza intervallo di tempo eseguisse, ricordandogli, che se era morto un Gregorio Boncompagni, eragli succeduto un Sisto Peretti.

- Aveva questo Papa meravigliosa efficacia in ogni materia di dire, ma quando adirato minacciava, accompagnandolo con una certa natural fierezza di sembiante pareva fulminasse. Certo è, che D. Paolo Orsini, avvezzo sin'allora ad esser temuto dai Papi, entrò in tanto pensiero per questo insolito parlare del Pontefice, che poco mancò non gli perdesse il rispetto dovutogli, in che si contenne più forse per caso, che per prudenza e timore.

- Andò subito l'Orsini a riferire al Cardinal de' Medici quanto gli era occorso col Papa, da cui fu consigliato ad ubbidire Sua Beatitudine, licenziando coloro, e ritirarsi esso fuori di Roma, per non inciampare colle sue forze e persona in qualché borasca, e nella discrezione d'un Papa regnante, preteso da lui aggravato, e di animo inclinato alla vendetta, come dai segni appariva, e dalla politica usata da Cardinale, non per altro riguardo che di poter giungere a quel, che allora possedeva nel soglio vaticano, che era l'unica autorità per poter punire D. Paolo Giordano Orsini.

- Erasi il detto Orsini mostruosamente ingrassato16 a tale, che le gambe erano giunte a quella grossezza, cui appena arriva il cinto d'un uomo ordinario, corrispondendo a giusta proporzione il resto delle membra. Aggiungevasi d'essergli nata per gli umori salsi in una gamba una lupa (morbo così detto per la sua voracità) nudrita da lui con grande abbondanza di carne d'animali, applicatavi sopra per medicamento, acciò da quella mordacità, mancandogli altro pasto, non fosse consumata la carne viva, che gli stava intomo.

- Sotto pretesto dunque di trovar rimedio a tale indisposizione ne' bagni d'Abano celebri sul Padovano, si ritirò alla metà di Giugno 1585 colla sposa nel dominio Veneto, come in luogo sicuro per i molti meriti della Casa Orsini con quella Repub. Serenissima per lui e Posteri suoi. Prese in affitto tre nobilissimi Palazzi, uno in Venezia de' Dandoli in contrada chiamata Lucca, l'altro Foscari detto l'Arena, ed il terzo in Salò in riva dell'amenissimo lido di Guarda, che era stato già, del Sig. Sforza Pallavicino.

- Sentirono con molta soddisfazione la venuta di D. Paolo Orsini ne' loro Stati i Veneziani, e per fargli onore, gli offrirono una nobil condotta. Sbrigossene brevemente D. Paolo, con fare intendere a que' Padri, che sebbene egli per debito ereditano (sic) (sta per 'ereditato') si sentiva inclinatissimo al servizio della Serenissima Signoria, ad ogni modo era al presente servitore del Re Cattolico, e non gli pareva conveniente accettare il carico di altri Padroni.

- Cagionò questa risposta qualche tiepidezza nel Senato, onde avendo prima inclinazione di farlo ricevere a nome del Pubblico nella sua prima venuta in Venezia, risolsero di non moversi; d(i) (sic) che penetrato da D. Paolo, non volle egli ne meno arrivarvi, quantunque si fosse già condotto vicino a Padova, ma volteggiando si condusse alla preparata Stanza di Salò, dove tutta l'estate si trattenne.

- Nella mutazione della stagione si risentì la salute poco buona di D. Paolo agitatosi ne' Viaggi, e discorrendo di trasferirsi in Venezia, ne fu dalla moglie dissuaso, e per suo consiglio rimase in Salò. Credevano alcuni, che essa accortasi del pericolo del marito con la scusa di trattenerlo in Salò, volesse condurlo fuori d'Italia in Argentina, luogo libero de' Svizzeri, per assicurare ivi la sua persona in caso della morte del marito. Ma se o vero o falso fosse il suo disegno, certo è, che non ebbe effetto, perché sopraggiunto D. Paolo da nuova indisposizione in Salò al 10 novembre 1585, dubitò di quello era per succedere, onde per la pietà della sua tanto amata consorte, la quale vedeva restare nella sua giovinezza povera tanto di riputazione che di roba, perseguitata da Papalini regnanti Peretti, mal veduta da Casa Orsini, e senza speranza d'accomodamento dopo la sua morte, fece, come l'obbligava la generosità di cuor magnanimo, di proprio suo moto il testamento, nel quale pensò di aggiustare affatto lo stato di povera ed abbandonata Signora, lasciandogli fra danari e gioje un valsente di più di cento mila scudi, oltre i cavalli, carrozze, argenti e mobili, tutti, che servirono in questo viaggio.

- Pretese con ciò D. Paolo Orsini di stabilire lo stato della sua amata consorte, e gli fabricò il precipizio, perché gli eredi mal soddisfatti di questo matrimonio, non solo pretesero di non adempire il testamento, ma in oltre di seppelire con la morte di Vittoria Accoramboni le leggerezze di D. Paolo Giordano, commesse per sua cagione.

- Morto il marito, rimirandosi la miserabile Vedova, appena assaggiata la grandezza di quel sublime maritaggio, ricadere a vita privata, e considerando nell'esaltazione del Cardinal Montalto al Papato le perdite fatte nella morte di Francesco Peretti di lui nipote, e suo primo marito, fu quasi per consegnarsi nelle mani della disperazione, e vi fu taluno, che affermò, che Ella prendesse una Pistola per uccidersi, ma fu da chi presente trovossi impedita, riserbandola Iddio a morte forse più dura per il corpo, ma più salutifera per l'anima, come in altra relazione udirete.17

Fine

A proposito di Camilla Peretti, sorella di Sisto V e madre di Maria Felice e di Francesco, così aveva scritto Pietro Andrea Galli nel 1754:

... E qui 18 dovendo chiudere il ragionamento di una si gran Donna (Camilla Peretti), diremo aver ella avuta la consolazione dopo la dimora di tre in quattr'anni in Roma di veder sublimato il suo Fratello Felice alla sacra Porpora, indi decorosamente accasati li due suoi figli Francesco, e Maria Felice, e finalmente rimirare lo stesso suo Fratello assiso sul Trono Pontifcio; Nel cumolo per di avvenimenti si prosperi non fu esente dalla grave amarezza di restar priva di detti suoi Germogli, l'uno con infausto successo, e l'altra con morte immatura, soltanto raddolcita dalla prole, che Maria Felice lasciò alla luce, come in appresso vedremo; E sebbene ragion vorrebbe di molto dilungarci in descrivere l'esimie, e singolari doti, che con maggioranza non ordinaria in essa rilucerono, in compendio accenneremo, esser ella stata Donna in spirito elevatissimo, e benché passasse li suoi primi anni in una vita privata, e con mediocre trattamento, riuscì non di meno a vista di Roma d'accortezza, prudenza, e maniere tali, che fu di gran maraviglia a quella Corte, avendo pi volte meritato di ricevere pubblici, e speciali encomj dallo stesso Sommo Pontefice Clemente VIII, in tempo del quale era ancora vivente, con la gloria di rimirare sull'auge delle grandezze i Nipoti nati dalla già defunta Maria Felice sua Figlia.

Riassumendo ora il discorso intomo alla stessa Maria Felice, ed a Francesco suo Fratello, in quanto al secondo fu egli Marito di Vittoria Accoromboni da Gubbio, ma con lagrimevole avvenimento, giacche non passò lungo tempo, ch'il meschino rimase proditoriamente ucciso senza aver lasciata prole veruna, per qual cagione ebbe luogo la restituzione della dote, che seguì alli 22. di Marzo 1579. per Istrumento rogato dal Notaro Tarquinio Cabaluzio.

Una perdita così funesta, e di sommo rilievo ognun' potrà comprendere qual rammarico cagionasse alla di lui Madre Camilla, ed al Cardinale suo Zio, pure di questi si racconta, ch'esteriormente non dimostrasse alterazione di sorta alcuna, a tale segno, che non s'interessò punto nella causa, perche l'Uccisore soggiacesse al condegno castigo, il che diede molto che discorrere con diversità di pareri a tutta Roma...

1. La narrazione, tratta da Casimiro Tempesti 19

I. Claudio Accorambuoni, nobile di Gubio, dimorava già da molti anni in Roma; e tra gli altri figliuoli, aveva una fanciulla, che si chiamava Vittoria, Donna, dice il Gentiluomo Aquilano nelle sue Storie, VoL. 2. lib.6. f. 197. Donna d’alto spirito, & di molta bellezza di Corpo, e d’Anima: ma l’incredibile beltà del volto era il pregio minor di lei, perché veniva superata da certe doti di straordinaria eccellenza; e specialmente da una portentosa attrattiva nel favellare, nel complimentare, negli atti, nel portamento, il tutto senz’arte, e senza affettazione veruna. Or queste rarissime cumulate grazie, che la celebravano per la più vaga Dama, e più compita de’ suoi giorni, fecero tale incantesimo in Roma, che molti nobili non solo la sospirarono, ma di vantaggio litigarono per averla isposa; tra’ quali uno fu Paolo Giordano Orsini Duca di Bracciano Vedovo della sorella di Francesco Medici Granduca di Toscana, dalla quale aveva Don Virginio Orsini suo primogenito.

II. Ma il Genitor di Vittoria, per evitare ogni più acerba rissa tra’ nobili pretendenti, diede a tutti una cortese, ed apparente ripulsa, sposandola a quel Giovane, che più sembrava suo pari, e che più d’ogn’altro, direm così, l’adorava; ed egli fu Francesco Peretti, Nipote del nostro Cardinale, e figliuolo di Cammilla sorella di lui. Il motivo principale, che lusingò il Genitor di Vittoria, fu la speranza non volgare di unire la sua figliuola al Nipote d’un Papa; mentre in Roma era fama universale, che il Cardinal Peretti dovesse essere il Successor di Gregorio XIII. come scrive l’Anonimo del Campidoglio: Indusse i Parenti di Vittoria (così egli) a questo Matrimonio, non solo la dignità presente del Cardinalato nella persona di Montalto, Zio di Francesco; ma la speranza ancora, che del futuro Pontificato del medesimo incredibilmente fioriva appresso ad ogn' altra sorta di persone.
La Madre diede il consenso, per non contraddire al marito; ma si protestò col medesimo, che in quanto a se, non avrebbe anteposte le future incertissime grandezze di sua figliuola, quando avea le grandezze principesche presenti nella persona del Duca di Bracciano, cognato d’un altro cardinale, e Principe, Ferdinando de’ Medici.

III. Contuttociò il Genitore, ch’era prudente; e ponderava la troppa disparità tra la sua figliuola, e Paolo Giordano Orsini, cercò di strignere il parentado col Cardinal Peretti, con somma celerità; e fu sposata a Francesco20 . Felicissima certamente sarebbe stata Vitttoria, se non avesse prestata fede alle insinuazioni superbe, e stoltissime di sua Madre (come così credono molti Storici, fondati sopra i processi.) Eppure, egli è certo, che prescindendo ancora dalle speranze del futuro Papato, nulla mancava a Vittoria, onde l’ambiziosa Genitrice aver potesse un cuor sì barbaro, di guidar la figliuola a nozze ulteriori, coll’esterminio di Francesco Peretti; poiché Donna Cammilla, ed il Cardinale mantenevano Vittoria con una sì squisita proprietà, che non la cedeva a verun’altra Dama di Roma; anzi prevenivano i desiderj donneschi di lei, di abbigliamenti, di sfarzo, di servitù, di cocchio, di vestimenta, di gemme; onde l’Anonimo scrive: Né solo da Francesco, il quale sopra ad ogn’uso de' mariti, quasi pazzamente invaghitosene, poco meno, che non l’adorava; ma da Cammilla Madre, e da Montalto Zio di Francesco era in modo amata, che in altro non pareva studiassero, che a spiare i gusti di lei per incontrarli, con prontissime, ancorché talora gravosissime sodisfazioni.

IV. Appena ella mise il piede in casa Peretti, fu la fortuna de’ suoi fratelli: poiché raccomandò essa al Cardinale, il suo Germano Ottavio, giovane di santi costumi; ed egli pigliò tal protezione di lui, che scrisse al Duca d’Urbino, pregandolo a volere passar supplica a Gregorio XIII perché lo creasse Vescovo; ed il Duca avanzando la nomina, fu dal Papa eletto Vescovo di Fossombrone nell’età di trent’anni, Prelato di gran bontà, che profetizzò poi la violenta morte a Vittoria. Ottenuta questa prima grazia, s’avanzò a raccomandare al Cardinale l’altro fratello, chiamato Giulio; ed ei parlandone col Cardinale Alessandro Sforza ottenne, che questo Principe, uno tra’ primi Cardinali della Santa Sede, pigliò Giulio per Gentiluomo di camera; e sembrò che avesse cangiato cuore con Giulio; poiché Roma diceva, che Giulio Accorambuoni era il Cardinale Sforza. Rimaneva a Vittoria da raccomandare Marcello, terzo germano; ma perché desso era di costumi diversi affatto dagli altri fratelli, e perciò bandito da Roma, non si arrischiò a parlargliene; ma il Cardinal Peretti, prevenendo i desiderj di lei, favorì questo ancora col difenderlo dalla Corte; e si può dire, che nel salvare a costui la vita, si allevasse in seno la vipera.

V. Per la qual cosa la Madre di Vittoria non aveva che desidera (sic) di vantaggio; ed avrebbe ancora goduto l’eccelso onore di veder sua figliuola Consorte un giorno d’un Principe, Nipote di Papa, se si fosse contentata di aspettare in pace, quel che allora le presagiva la fama. Ma chi può frenar le voglie d’una femmina superba? Mentre Francesco giaceva di notte con la sua Vittoria, Caterina Bolognese, cameriera di lei, entrò animosa; e presentando un biglietto a Francesco, disse d’esser comparsa importuna, perché Mancino le avea raccomandato, che senza veruna dimora glielo consegnasse, per essere un affare di somma importanza; e perché ogni indugio sarebbe nocevolissimo.

VI. Convien sapere, che il Mancino era un tal Domenico d’Acquaviva, dello stato di Fermo, il qual si chiamava tale per soprannome: Uomo conosciuto da Francesco, perché poc’anzi l’aveva beneficato. Egli consegnato appena il biglietto se n’andò via, come contestarono il servidore, e la cameriera a Francesco, quando egli disse, che lo facessero entrare, perché voleva parlarli; e noi crediamo, che forse volesse domandarli; se nulla sapesse d’affare sì premuroso. Il Biglietto poi era scritto a nome di Marcello Accorambuoni, fratello di Vittoria; il qual, tuttoché fosse bandito da Roma, soleva bene spesso penetrare nella Città, spalleggiato da qualche Principe Romano; e rifugiarsi in casa di Francesco, che di buona voglia l’accoglieva, come fratello dell’adorata sua sposa.

VII. Aperse dunque il funestissimo plico; e lesse, che un affare di somma segretezza, e che non ammetteva dilazioni, l’aveva costretto a scriverli in quell’ora impropria, per manifestarglielo non in carta, ma solo a bocca; onde lo pregava a degnarsi di andar subito al Monte Esquilio, ch’ora dicesi Monte Cavallo, dove si stava impaziente aspettando. Terminate di leggere le poche righe, disse addio alla sua Vittoria; e vestendosi succintamente con tutta fretta, si strinse sotto il braccio la spada; e col servidore avanti con torcia accesa, stava in atto d’uscir di camera; quando sua Madre Cammilla, l'altre donne di casa, e con la stessa Vittoria, che pur s’era alzata in vesta da camera, cominciarono affannose a pregarlo, che non volesse uscir di casa in ora cotanto impropria. La Madre, sorpresa da un certo orrore, che le serpeggiò nelle vene, in vedendolo risoluto, si prostrò piangendo, e abbracciandolo teneramente per le ginocchia li disse che il cuore, il quale fin’allora non l’aveva mai ingannata, le presagiva cosa funesta di lui; e lo scongiurò a non andare, perché ben sapeva i tempi indulgentissimi, che allor correvano.32

VIII. Ma egli sprezzati gli atti, le lagrime, le preghiere; e liberatosi dalle materne braccia, proseguiva il viaggio; se non che la sagace Madre ritenendolo per un lembo della veste, e piangendo dirottamente li replicò, che si ricordasse, Marcello non essere mai stato solito di far con lui queste confidenze: che il Mancino era partito subito; che ambedue erano sanguinarj, e banditi; e che in Roma ad ogni poco si sentivano esempi di crudeltà impunite. Sordo egli piegò veloce verso Monte Cavallo, o per meglio dire, corse incontro alla sua mortale sventura. Già poggiava il colle l’infelicissimo giovane, quando colpito da tre archibusate cadde in terra senza potersi difendere; ove sovraggiunti quattro sicarj
lo trucidarono a furia di stilettate;23 e così terminò di vivere quest’innocente, non d’altro reo, che di avere una bellissima Moglie.

IX. Al ferale annunzio non tramortì Cammilla, perché era di alti spiriti, e Donna forte; ma diede in un frenetico pianto. La servitù non piangeva, urlava; onde lo scompiglio di tutta la casa penetrò nell’appartamento del Cardinale, il quale senza punto alterarsi di volto, o voce, scrive l’Anonimo, vestitosi in un tratto; e raccomandato brevemente se, e quella povera anima a Dio, se ne passò dalle donne, e con pace, e gravità mirabilmente frenò le voci, e gli urli feminili, che già in quella casa cominciavano a sentirsi. E tanto con la sua Autorità operò, che niente più tra quelle Donne si vide, o udì, in tutto quel funerale, di quel che portano le morti comuni nelle case ben composte d’uomini saviamente disciplinati. Egli poi, che aveva confortati gli altri, si mantenne con tal decoro, e moderazione, che Roma, la quale è perfettissima osservatrice
o del debole, o del virtuoso de’ suoi Grandi, messasi a squittinar di proposito questo Porporato, sì altamente ferito nella pupilla degli occhi; sebbene al primo era divisa in lodatori, e criticatori, fu costretta in ultimo a celebrar la virtù vera di lui.

X. Cominciarono le laudi, e le critiche dalla contingenza, che il giorno seguente all’uccisione, era già intimato il Consistoro in San Pietro. Tutta Roma disse, che quel Consistoro sarebbe stato il primo, cui non fosse intervenuto il Cardinale Peretti, perché ognuno giudicò, ch'egli non avrebbe voluto far mostra delle sue più veementi passioni in così augusto consesso, dov’egli potea benissimo immaginarsi che tutti gli occhi sarebbero stati rivolti verso di se. Ma egli v’intervenne tra’ primi, conforme il suo consueto; e comparve in volto con la solita indifferenza; rispondendo a chiunque de’ Cardinali si fece a condolersi seco dell’acerbo caso, che rendeva infinite grazie all’affetto loro; e che nel mondo solevano accader tali cose, delle quali n’erano già piene le Storie; onde dove non era rimedio alla perdita diveniva debolezza un eccessivo cordoglio.

XI. E benché i più forbiti cortigiani interpretassero questa sua immobilità, un’affettazione da Stoico; e dicessero che Roma vantava i Bruti, e i Catoni ne’ giorni loro; i Savj però conchiudevano, che senza una vera virtù cristiana pareva impossibile finger tanto. In fatti quando il Papa entrò nel Concistoro, la prima cosa che fece, ella fu il fissar gli occhi sul volto del Cardinale, e piagnere. Ma il Peretti mantenne la sua solita gravità, e savia indifferenza. Quando toccò a lui appressarsi al Papa, per trattar gli affari che aveva, prima che sciogliesse la lingua al discorso, diede di nuovo Gregorio in uno sfogo di lagrime, lo consolò, e li promise di voler far severa giustizia degli uccisori. Ma il Cardinale, rendendoli le grazie dovute, supplicò sua Beatitudine, a non fare ulteriore inquisizione, per non aggravare molti innocenti; e dopo aver assicurato il Papa, che perdonava a tutti di vero cuore, cominciò ad esporre le sue incumbenze, con la stessa pace, e posatezza, com’era uso altre volte; onde l’Anonimo riverito dice: Costanza, che non solo ad altri; ma a Gregorio rese molta meraviglia; il quale finito il Concistoro parlando di questo fatto col Cardinal San Sisto suo nipote, e crollando il capo, veramente costui, disse, è un gran frate.

XII. Così Gregorio; ma que’ Cortigiani, che hanno per iscopo interpretar (da politici) le menti altrui, tornarono a dire, che il Cardinale affettava stoicità; e poiché aspirava ascendere sovra tutti gli Uomini, non voleva mostrarsi Uomo; che aspettava a vendicarsi quando non avesse di cui temere, e frattanto inghiottiva il boccone amaro, per non s’irritar contro l’Autore dell’omicidio, il quale poteva di facile attraversargli la strada al Papato, ma l’esito dimostrò il contrario, perché non si legge, che mai si vendicasse; anzi volle beneficare Vittoria, ed a Paol Giordano non fece altro, che una parlata da Principe, perché così conveniva alla maestà del suo grado, e perché Giordano tentò ogni strada per arrivare a penetrar il cuore di lui. Nel rimanente, qual si portò in Concistoro, tal si mantenne poi sempre; onde ne’ seguenti giorni, allorché i Prelati, i Cardinali, i Principi andarono a passar seco officj cortesi di condoglienza, non vi fu amico, domestico, o confidente, che udisse dalle labra di lui una parola di semplice lamento; ma con tutti, così scrive lo stesso Anonimo, dopo breve ragionamento della instabilità de’ casi urnani, confermati con sentenze, e detti della Scrittura, e Santi Padri, usciva in discorsi meno molesti di pubbliche, o private faccende; come s’egli volesse consolando deviare da’ pensieri molesti i suoi consolatori.

XIII. Roma finalmente volle certificarsi della virtù di questo gran Cardinale in un rincontro, nel quale si credeva, che fosse cosa impossibile il fingere, o almeno il dissimulare; ed il rincontro fu questo. Già l’opinione comune attribuiva l’omicidio a Paol Giordano Orsini, attese le cospicue conjetture che accompagnavano il fatto atroce. Onde nell’occasione, che i Cardinali, e i Principi andavano or gli uni, or gli altri a far visite di condoglienza; osservò attentissima, se Paol Giordano n’andasse anch’egli, per compiere questa cirimonia; ed avendo spiato il giorno, e l’ora, che l’Orsini anderebbe a complimentare, molti Prelati di rango, col pretesto di visita, lo prevennero; e quindi, sembrando una cosa a caso, s’empiè l’anticamera di Prelati, ciascuno de’ quali era andato con deliberata volontà di osservare minutamente il primo incontro di que’ due volti; giudicando, che il Cardinale avrebbe potuto difficilmente occultare almeno almeno il primo moto d’alterazione; ma videro, che il Cardinale l’accolse con la solita giovialità di volto; e ragionò secolui familiarmente, com’avea fatto altre volte, onde lo stesso Paolo poco dopo non seppe co' suoi più familiari dissimulare, a’ quali entrando in cocchio nel dipartirsi dalla visita, ridendo disse: Infatti è vero, che costui è un gran frate; quasi confermando il detto di Gregorio, così l’Anonimo.

XIV. Egli lo disse per irrisione; poi, per altro, provò di qual virtù fosse adorno, e di quanta sincerità. In tanto, a tempo opportuno, fece portare in Chiesa il trucidato cadavere dell’innocente nipote, ne ordinò decorevole funerale; e perché da Vittoria non avea ricevuta prole, la rimandò a casa de’ suoi parenti; e le donò liberalissimo tutte le vesti, ori, argenti, e gioie, che dal marito, e da lui avea ricevute: liberalità, che divulgatasi per tutta Roma, fece che Pasquino dicesse a Marforio: Ora ti credo: ed avvalorò il grido del futuro Papato, poiché i medesimi Cardinali fecero questo nobil concetto, che il Montalto, o per natura, o per virtù non sapesse, nè volesse far male a veruno, benché sì gravemente percosso: son parole dell’Anonimo soprallegato.

XV. In tanto Gregorio XIII faceva ordire alla gagliarda, fuor del costume, i Processi; e fu avvisato Paol Giordano, che assicurasse Vittoria, la madre di lei, e la cameriera, se non voleva vedere qualche spettacolo. La cameriera fu assicurata a Bracciano; e l’altre due si rifugiarono nel palazzo di Paolo, il quale fece praticare ogn'industria perché comparissero innocenti; onde a tant’uopo fu presentata al Governator di Roma una Lettera, scritta a nome di Cesare Pallantieri, giovane audace, e bandito; nella quale diceva: Non essere necessario, che sua Signoria illustrissima si prendesse briga di cercar l’autore della morte di Francesco Peretti, poiché egli l’havea fatto uccidere per contese giovanili, nate già qualche tempo fra di loro. Ma questo fu giudicato un sutterfugio, o de’ parenti di Vittoria, o dello stesso Paol Giordano, per acquetar la Giustizia; e in tanto chi imputava i fratelli di Vittoria, e singolarmente Marcello, a cagione del biglietto portato dal Mancino; chi Vittoria medesima, vedendola rifugiata in casa di Paol Giordano, lo che dava indizio di prossimo matrimonio. Nel processo però si legge, che il Mancino, capitato nelle forze della Giustizia, confessò nel secondo esame, e senza tormenti, à 24. Febbrajo 1582 che la Madre di Vittoria ordì il tradimento, per mezzo della cameriera; e che gli esecutori dell’assassinio furono Marchionne da Gubio, e Paol Barca da Bracciano Lance spezzate d’un Signore, il nome del quale, per degni rispetti, non si specificava.

XVI. Nè si andò più avanti nella formazione de' processi, perchè il Cardinal Peretti, e da se solo, presso il Pontefice, e con altri Cardinali suoi amici, Sforza, Este, Farnese, e Medici ottenne, che il tutto fosse sepolto in eterno silenzio. Il Mancino, scrive l’Anonimo, fu mandato via dalle carceri quietamente, con precetto pena la vita, che se n ’andasse direttamente al suo paese; ne di là senza espressa licenza si partisse; seguì la liberazione di costui nel 1583 giorno di Santa Lucia; il quale, per essere natale di Sisto, mi conferma nella credenza, che per sua intercessione, e per grazia di lui fosse prudentemente terminato questo negozio, che tirato innanzi potea cagionar molti sconci, senza frutto alcuno; massime in tempi di così debol governo. Ma se alle replicate suppliche del Cardinale si quietò il Papa, si riserbò per altro l’arbitrio sopra il matrimonio, che Giordano volea conchiudere con la sospirata Vittoria, ed il Cardinal Ferdinando de’ Medici, unito coll’Oratore Spagnuolo supplicarono sua Santità, che sequestrasse in Castel Santangiolo Vittoria; e vietasse a Paol Giordano lo sposalizio, mercè la troppa disparità de’ Natali; quindi Gregorio la socchiuse in Castello, e intimò precetto ad ambedue, sotto pena di ribellione, che senza suo espresso consentimento, e de’ suoi Successori non osassero contraere il matrimonio. Pena giustissima, che riuscì più dolorosa all’Orsino di qualunque altro gastigo.

XVII. Cesare Campana scrive di Vittoria, che dessa fu ritenuta in Castel Sant’Angiolo lungamente prigioniera, e poi liberata, come innocente di tal fatto. E noi non siamo alieni dal crederlo, perché può essere, che la Madre se l’intendesse segretamente col suo figliuolo Marcello, e con la cameriera della figliuola; dubitando forse, che qualche affetto di Vittoria verso il suo marito Francesco non si opponesse alle sue trame scelleratissime; e può essere ancora, che il Cardinale Peretti cercasse (al meglio che fu possibile) di salvar l’onor di Vittoria; ma che che sia di ciò, stette ella in Castel Santangiolo, almeno dal Gennajo del 1583 fino a’ dieci d’Aprile del 1585 giorno in cui morì Gregorio; e si avvera quello che scrive il Gentiluomo Aquilano, ch’ella cioè vi dimorasse lungamente.

XVIII. Spirato appena Gregorio, fece il Giordano consultar Teologi, per sapere se fosse più sottoposto al precetto intimatoli sotto pena di ribellione, e perché qualche Teologo maneggevole l’assicurò, che il precetto era spirato allo spirar del Pontefice, tuttoché vi fosse la clausola irritante dell’espressa licenza de’ Successori di lui, quindi affrettò lo sposarla, prima che fosse creato nuovo Papa; ed intanto spedì Uomo, sovra mutati cavalli, ad Ottavio Accorambuoni, Vescovo di Fossombrone, fratello di Vittoria, per domandargli il consenso; ma il buon Prelato, non volle mai darglielo, tutto che gli altri fratelli, o per timore, o per ossequio v’acconsentissero. Le istanze reiterate al Vescovo, e le repliche negative allungarono lo sposalizio; nè troppo per questo se ne affannò Giordano, tuttoché aspirasse a sposarla prima della nuova creazione del Papa, perchè si lusingava, che il Conclave dovesse andare in lungo; siccome secolui tutta Roma ancora se lo credeva; ma il tempo fu assai più breve dell’ideatosi, poiché dalla morte di Gregorio, fino alla creazione, i Cardinali si sbrigarono in quattordici giorni, compresi i giorni delI' esequie, l’entrare in conclave, e il crear il Papa. Gregorio morì a’ dieci d’Aprile, ed a’ ventiquattro fu eletto SISTO.

XIX. Rimase Paol Giordano, come stordito, all’inaspettata disgustosissima nuova; contuttociò volendo mostrare a Roma la continuazione del disprezzo della maestà del nuovo Sovrano, senza più attendere il consenso del Vescovo, sposò in fretta in fretta Vittoria, la mattina stessa che il Cardinal Peretti fu creato Papa.25 Così tutti convengono gli Scrittori; e l’Anonimo così riflette! Non venne all'effetto dello sposalizio, se non quel giorno stesso che fu creato Papa il Cardinal Montalto, tanto interessato in quell’affare: ed o caso fosse questo, o effetto pensato per mostrar col disprezzo della somma potestà la continuazione del poco conto tenuto da lui della Corte, nel tempo di Gregorio, offese mirabilmente l’animo di SISTO. E scrive il vero, perché lo sposarla in quella stessa mattina, sembrava un fare a dispetto; e lo sposarla contro il divieto di Gregorio, che aveva inclusa l’espressa licenza del Successore, fu nuovo reato, per cui SISTO poteva giustissimamente vendicare l’assassinio impunito; con tutto ciò avendo perdonato da Cardinale, non volle gastigar subito da Papa il secondo eccesso; e aspettò luogo, e tempo da provar l’ubbidienza di lui, con intimarli un altro precetto, e giusto, e decorosissimo, qual egli fu di licenziare tutti i banditi protetti da lui; cui se poi avesse violato, servisse quest’ultima trasgressione di delitto, e di supplicio per il primo gravissimo eccesso. Sentimento in vero degno, e da Principe.

XX. Ma perché la sua sovranità era allora allora oltraggiata, e meritava un gastigo convenevole ad un prepotente, che tanto è dire, meritava di esser punita con la confusione, volle però avvilirlo, col farli conoscere, che non era più tempo d’alzar la fronte, come negli anni Gregoriani avea fatto. Quindi, nelle comuni allegrezze di quel giorno stesso in cui fu creato Pontefice, glielo dimostrò con un bellissimo tratto alla Principesca; imperocché quando Giordano andò con gli altri Principi Romani, Cardinali, ed Ambasciadori a inchinarsegli; e andò con animo di spiar dal volto di lui, dove pendesse, cioè a lasciarsi intimorire, o a farsi temere; egli lo tolse subito d’ogni dubbio; ed in un momento, per così esprimerci, l’assicurò, che in Roma non era da scherzar con SISTO; poiché nell’atto che Paolo s’inginocchiò, feceli balenar sul volto, ed alla sfuggita un’occhiata tra il severo, e il dolce, e nulla rispose ad alcune poche parole di congratulazione, che si proferirono dal Duca; sicché s’alzò dal bacio del piede non poco avvilito.

XXI. Ma più di lui stava confusa, ed agitata Vittoria, immaginandosi d’aver per contrario un inesorabil Sovrano; tantopiù, che in Roma pochi erano coloro, che la sapessero compatire, dicendo tutti, che se fosse stata quanto bella, altrettanto saggia, era già venuto il tempo d’essere la più felice Dama d’Italia. Non si possono esprimere le chiacchiere, e le dicerie, che le Donne fecero sopra di lei. Una tra l’altre di rango (e che in prima l’amava teneramente) non potè contenersi dal dire sdegnosa: Vedete mo quel eh ’ ha fatto quella matta di Vittoria: poteva essere la prima Principessa di Roma: e ha preso per marito un canchero vivo, pieno di piaghe, di cinquantanni, ecc. Ed era la verità, perché Paolo Giordano, oltre l'esser di cinquantanni, era mostruosamente grasso, dicendosi di lui, che la grossezza d’una Gamba superasse la cintura de’ fianchi degli Uomini ben complessionati; onde per la sovrabbondanza di umori salsi, e indigesti gli si era aperta una cancrena in una gamba; cui curava, ma invano, con applicarvi sopra molta carne morta d’altro animale, acciocché l’umor maligno, e mordace, trovando altro pascolo, non gli corrodesse la carne viva.

XXIII. (sic) Or egli intese certamente dal guardo mezzo amaro di SISTO, e dal non averli dato retta, che non v’era più da far alto (sic); ma tuttavia non comprese appieno tutto quello che pretendea di capire, cosa cioè ripromettere si potesse da quell’Uomo, non conosciuto mai bene fin’allora; e quindi persuaso, che la folla della prima udienza avesse tolta al Pontefice la comodità di manifestare il suo interno, deliberò di ottenere nuova udienza; e per assicurarsi d’aver l’accesso, l’ottenne per mezzo del Cardinal de’ Medici, e dell’Oratore Spagnuolo il Conte Olivares. Ma come allora SISTO si portasse, cosa rispondesse, come mantenesse la promessa del generoso perdono, ed in qual modo provasse l’ubbidienza del suddito, ne parleremo al suo proprio luogo. Per ora solamente accenniamo che due mesi dimorò in Roma; e verso la metà di Giugno del 1585 s’inviò con la sua Vittoria e con Lodovico Orsino a Venezia.

XXIV. La ragione poi o cagione, per la quale questo Lodovico Orsini abbandonò Roma, ed accompagnò Paol Giordano, si riferisce dal Cardinal Santorio all’Anno 1583 numero 68, il quale così scrive: Occorse che in Roma fosse fatto un gran tumulto, con uccisione di Sbirri buttati dalle finestre, calpestati dalle Carrozze e ammazzati impune, con grande ignominia et disprezzo della giustizia; poiché volendo Gioanbatista della Pace d’Assisi, Bargello della Città, catturare alcuni Banditi del Regno, come fece; se li fece incontro il Signor Raimondo Orsini, insieme col signor Pietro Gaetani, Signor Silla Savelli, Signor Ottavio de Rustici, Signore Emilio Capizzucchi, Ascanio di Ruggieri, et un giovane de’Maccarani, tutti a cavallo, incominciando ad insultare detto Bargello, il quale con molta creanza, e rispetto, con la berretta in mano, parlava ad essi, per farli quietare; ma seguitando essi, se appiccò una mischia, nella quale restarono ammazzati detti Signori Raimondo, Silla, Ottavio, con un servitor de’ Massimi; fuggendosene da Roma il Bargello, poiché non vi era sicuro.
XXV. Lodovico Orsini, per vendicar la morte di suo fratello Raimondo, sollevò il popolo contro gli Sbirri, e fece uccidere Vincenzo Vitelli, Luogotenente generale di Giacomo Buoncompagni, Nipote del Papa, alla calata di Monte Cavallo, vicino a San Silvestro: tanto conferma il Santorio: essendo anchora stato ucciso il Signor Gio: Vincenzo Vitelli Luogotenente del Signor Duca di Sora alla calata di Monte Cavallo. Vedendo pertanto Lodovico, che regnando Sisto, non v’era più modo di far alto, e basso; e che Paol Giordano avea riputato esser meglio dilungarsi da Roma, egli ancora si accompagnò seco; ma però con animo sempre avverso a Vittoria, per la disparità de’ natali. Nell’avvicinarsi a Venezia, siccome la Casa Orsina vantava molti meriti con quella Repubblica, così deliberò quel Senato di onorarli; ed offerse loro una comitiva nobile per l’ingresso: ma Paolo rispose al primo inviato, che ringraziasse la gentilezza di que’ Signori, e dicesse loro, che quantunque per debito ereditario si sentisse inclinatissimo al servizio di quella Serenissima Signoria, ad ogni modo trovandosi presentemente servitore del Re Cattolico, non li pareva convenevol cosa accettare servitù d’altri Padroni.

XXVI. Tal risposta intiepidì l’animo generoso di que’ magnanimi Padri, e risolsero di non si muovere. Deliberazione, che fece torcere il viaggio a Giordano, il qual trovandosi vicino a Padova, piegò verso la Riviera dell’amenissimo Lago di Garda; e Lodovico seguitò il viaggio a Venezia, dove il Senato volendolo onorare, il dichiarò Governatore del l’Armi in Corfù: così scrive ancora Cesare Campana: Lodovico Orsino s’era già parimente con Paol Giordano ritirato nel Dominio della medesima Repubblica, et da lei ottenuta aveva condotta di Genti, et il Governo di Corfù. Si trattenne Paolo tutta la State in Salò, dove avea pigliato in affitto un Palazzo superbo; e dove con varj passatempi, cercò divertire la sua Consorte, e le sue proprie profonde malinconie, cagionate in parte da’ malanni del corpo, che divenivano più molesti; ed in parte dalla memoria di Roma, e de’ suoi eccessi.

XXVII. Nell’entrar dell’Autunno, sentendosi indisposto più del solito, e dubitando di sua salute, meditò di andare a Venezia. Ma Vittoria, che regnava interamente nel cuor di lui, a mezzo viaggio l’indusse a ritornare in Salò, perch’essendosi accorta, che il Marito prometteva cortissima vita, l’allettò a ritorcere il piede, col ricordargli l’aria, dolce e saluberrima di Salò. La scaltra Donna ideava realmente di spingerlo fuori d’Italia, in alcun luogo libero degli Svizzeri, perchè in caso di morte potesse assicurare la propria vita, e quelle ricchezze, che sperava potere ereditar dal suo Consorte; ma perchè questi non poteva più soffrire gl’incomodi del viaggio, divenuto rincrescevole a se medesimo, quindi le idee dell’affannata Signora svanirono, con alto rincrescimento di lei, e per sua somma sventura; poiché la cancrena ridusse Paolo agli estremi giorni; ond’ella diede in un pianto così impetuoso, e dirotto, che il Marito restò più afflitto per lei, che pel male; e considerando, che lasciava quella povera beltà nel fior della gioventù, odiosa al Papa, e agli Orsini fece subito testamento; e facendola da magnanimo, l’arricchì con un valsente considerabile di preziosi mobili, Cavalli, Carrozze, Argenterie; e per dote le assegnò centomila Scudi in danari, e gemme. Compiuto il testamento, e lasciatone esecutore il Duca di Ferrara, fu assalito, scrive il Campana, da una non molto gagliarda febbre in Salò, vicino al Lago di Garda, e facendosi cavar sangue dal braccio, incontanente spirò.27

XXVIII. Appena morto,28 cadde in deliquio la mal consigliata Vittoria, dal quale riavutasi diede in disperazioni, mercè un tumulto di pensieri, che tutti in un colpo le si affacciarono all’idea per tormentarla. Considerò la perdita della grandezza presente, e il dover tornare a vita privata, senza protezioni, senza appoggi, anzi esposta al furore Orsino, odiata da Lodovico, dal Cardinal Ferdinando Medici, e da tutta la real Casa: vide vivamente il primo assassinato Marito, che le rinfacciava l’amore svisceratissimo portato a lei; e questo crudo pensiero divenne ancor più spietato, nel rammemorarle la incomparabil grandezza del Card. Peretti già creato Papa; ond’è che profondamente immersa in questo riflesso: Se avessi avuto giudizio, ora sarei in Roma una Principessa felicissima, com’ è Donna Cammilla: sarei servita, corteggiata, adorata da tutta Roma; laddove mi trovo esule, raminga, insidiata, e odiosa a Sisto, sì altamente da me oltraggiato, si sentì investire da tanta vergogna, da tanta disperazione, che diè furiosa di mano a una Pistola per ammazzarsi; ma il suo fratello Flaminio, nell’atto appunto d’imbrandirla, gliela strappò di mano, riserbandola Dio, son parole dell’Anonimo, a morte più cruda del Corpo, ma meno spaventosa per l’Anima.

XXIX. Calmate alquanto le disperazioni della Vedova Accorambuona, ricevette una lettera di suo fratello, il Vescovo di Fossombrone, con cui l’animava a prepararsi per l’eternità; giacché Dio le usava tanta misericordia di farle conoscere, quanto fossero fallaci le speranze mondane; e benché destramente le annunziasse l’ultime sventure con il verso del Poeta, il mal mi preme, e mi spaventa il peggio; contuttociò condì talmente il vaticinio funesto, con lenità di conforto, ch’ella si sentì mutar cuore; e si risolse tutta a prepararsi alla morte, la quale previde non molto lungi, per le violenze di Lodovico Orsino, il quale pretendeva nullo il testamento di Paol Giordano, come fatto da violenza d’amore, e con l'arti della bellissima Vedova; onde diceva, che tutto dovesse appartenere a Don Virginio Orsini, erede legittimo di Giordano. In fatti appena egli seppe la morte, per lettera scrittali da Vittoria, ricevuta a’ 15 di Novembre sulle sett’ore di notte, andò per le poste a prendere il possesso di tutto a nome di Don Virginio. Giunse improvviso e repentinamente in Salò; ed affinchè Vittoria non potesse nascondere, o trafugar cosa alcuna, fe circondare dalle genti, che aveva seco condotte il Palazzo; e disse con sopracciglio alla timida Vedova, che palesasse quanto avea lasciato il Defonto. E perchè non trovò quella quantità, e qualità di gemme, ch’ei si pensava, riparlò imperioso alla smarrita donna, la qual dubitando di mortali violenze, ne confessò molte, e li diede buone parole; E perchè temendo, son parole del Campana, trattava con esso con molta sommissione, et in generale dava buone parole, si prese egli tanta confidenza, che come se il tutto fosse terminato, scrisse al Cardinale Ferdinando Medici, che la cosa era in suo potere.

XXX. Pensò l’angustiata Signora a procacciarsi tre validissimi soccorsi umani. Il primo fu di rifugiarsi in Ferrara, sotto la protezione di quel Duca, lasciato dal suo consorte esecutore testamentario; scrisse al Duca, e scrisse all’Agente di lui, che dimorava in Venezia. Il secondo fu d’implorare la protezione della Repubblica; e scrisse al Senato, raccomandando se stessa, ed i suoi fratelli Marcello, e Flaminio. Nella lettera dipinse così al vivo i pericoli della sua gioventù, la sua solitudine, e le prepotenze di Lodovico, che quegli Eccelsi sempre magnanimi Padri, specialmente nel difendere le persone più abbandonate, accettarono d’esserne protettori; e comandarono al Potestà di Padova, che fosse messa in possesso di tutto quello, che per testamento se le conveniva. Il terzo fu di ricorrer pentita al Sommo Pontefice, cui scrisse una lettera, trovata, come dice l’Anonimo, tra le memorie del Cardinale Alessandro Peretti, nella quale dopo una grata riconoscenza de’ sommi beneficj ricevuti da lui; e dopo aver detestate le sue vanità, li palesava il desiderio di chiudersi in un Monastero, o in Venezia, o in Roma; e li chiedeva per eseguirlo cinquecento scudi in limosina; dubitando, che con tutto il comandamento del Senato fatto al Potestà, il detto Lodovico avrebbe mossa lite; e con le prepotenze degli Orsini, e de’ Medici l’avrebbe vinta, rimanendosi essa del tutto misera.

XXXI. Questo ricorso di tanta fiducia piacque in estremo a SISTO; e deliberò di soccorrerla. Arricciò il naso Donna Camilla, quando il fratello Papa glie ne parlò? Ma SISTO accigliatosi: E che vorreste dire? così a lei soggiunse. Vorreste forse, che a questa poveretta, la quale riconosciuta, et pentita de’ suoi errori vuol ritirarsi a servire a Dio, noi che siamo suo Vicario, le neghiamo gli aiutj? Volemo in ogni conto ajutarla. Ma mentre volle farle rimettere in Padova cinquecento scudi d’oro in oro, giunse in Roma la infausta relazione, che la Vedova Accorambuoni era stata barbaramente uccisa. Imperocché quando Lodovico seppe, così Cesare Campana, che Vittoria disegnava diversamente; et che tentato haveva l’animo del Duca di Ferrara, lasciato Commissario nel suo testamento da Paol Giordano, per ripararsi nel suo stato; oppure risolveva di ritirarsi al sicuro dentro d’un Monastero in Vinegia; et in un medesimo tempo ottenuto haveva dal Podestà di Padova d’esser messa in possesso de’ mobili predetti; et che un ’Agente del Duca era andato in Padova a parlarle, si sdegnò fieramente, vergognandosi d’haver con troppa confidenza di se scritto al Cardinal Medici; et siccome era Signore di altieri spiriti, et di troppo risoluti pensieri, deliberò di sbrigarsi con la morte di essa Vittoria, et di due Fratelli, Marcello, et Flaminio, eh ’erano con essa in detta Città.

XXXII. Imperocché quand’ella fu assicurata dal Senato che ne prendeva la protezione, per goder più d’appresso le benficenze Regie; da Salò (accompagnata dal fratello Flaminio) andonne a Padova nel Palazzo che chiamavano de’ cavalli;29 dove con modesta famiglia se ne vivea ritirata, conducendo vita molto esemplare, e divota; poiché la mattina se la passava in Chiesa del Santo, ascoltando molte Messe, e confessandosi, e comunicandosi due volte la settimana; e buona parte della notte vegliava in orazione. Ora Lodovico volle che fosse eseguito quanto aveva deliberato a’ 22 di Dicembre; e lo stesso giorno, il fratello di lei Vescovo, che dimorava in Fossombrone, fece celebrare da’ suoi Sacerdoti molte Messe, con l’invocazione di Santa Vittoria,30 la solennità della quale è ordinata da Santa Chiesa nello stesso giorno; e siccome era Prelato di Virtù grandi, così credesi piamente, che si movesse a far ciò con illustrazione celeste, per impetrare alla sorella un felice passaggio all’eternità, come il contesta Cesare Campana.

XXXIII. Scrisse dunque Lodovico, dimorando egli ancora in Padova in un Palazzo preso in affitto, più per grandezza, che per dimora, scrisse a Liverotto Paolucci da Camerino, che stava in Venezia: che subito venisse a Padova; e unito con altri come a lui paresse, ammazzasse Vittoria ed i fratelli di lei. Fu avventuratissimo Marcello, il quale era poc’anzi uscito di casa per alcuni affari, quando lo stesso Liverotto, con Splandiano Adamo da Fermo, con Bartolomeo Visconti da Recanati, col Conte Paganello Toscano, con Domenico da Castello, col Capitano Cecco della Mandola, con Scipione Longo, e con altri, entrò sulle ore quattro di notte per una finestra. Flaminio dimorava in casa, e Vittoria si stava nella sua camera in orazione. Quegli fu colpito da tre archibusate, ma trascinatosi mezzo vivo nella camera, e sotto il letto della sorella, con settantasei ferite lo terminarono d’uccidere. Vittoria, così genuflessa com’era, con animo incredibilmente sicuro li raccomandò sempre l’anima, con tal precise parole, ripetute più e più volte: Flaminio, perdona; chiedi misericordia a Dio, e accetta la morte volentieri per amor suo. Mostrando la veramente pentita, aver più cura di quella povera anima, che timor della propria imminente morte.

XXXIV. Ucciso Flaminio, allora il Conte Paganello afferrò per le braccia l’intrepida Donna; e Bartolomeo Visconte col coltello trinciò prima l’affibbiatura del busto dal destro lato. Lo che osservando Vittoria, sempre genuflessa, avverti, disse a costui, avverti ch ’io voglio morir vestita, come si conviene all’onore d’una Dama, e moglie di Giordano Orsini, poi uccidimi come te piace. E subito cominciò a dire: Io vi perdono per amor di Dio, come lo prego che perdoni a me... Gesù... Gesù...perdono, perdono. In tanto il barbaro Visconte penetrandole il nudo fianco con uno stilo; e torcendolo, e ritorcendolo replicatamente, tanto la tormentò, con crudeltà non più udita, finché li venisse fatto trovare il cuore; mentr’ella prosegiva a dire, con voce a poco a poco più flebile e più languente: Io vi perdono, prego Gesù che perdoni a voi et a me; trafitto in ultimo il cuore, ella finì di vivere con le stesse parole in bocca: Gesù...perdono... Esempio di pietà, di carità così grande, che gli uccisori medesimi ne rimasero stupefatti; e restando attoniti nell’atto ch’ella spirò, disse il Paganello: Ohimè! che havemo fatto? havemo ucciso una Santa. Così concorda il Gentiluomo Aquilano, scrivendo: Ne lei mai restò di dire: Gesù...Gesù...perdono...perdono...fino all’estremo fiato con vivo esempio di focosa pietà, et tale, che superando l'insuperabile crudeltà de’propri uccisori rimasi perciò attoniti, la stimarono Santa.

XXXV. Volò a Roma, come dissi l’avviso di questa spietata uccisione mentre SISTO stava per mandarle con cedola bancaria li cinquecento scudi d’oro; onde, in vece del medesimo caritatevole sussidio, andò con la sua solita palatina comitiva a visitare le sette Chiese. Vi fu chi seppe interpretare malignamente quest’atto religioso del Pontefice; ma tutta Roma l’intese pel suo verso, cioè ch’ei facesse quella visita per suffragar l’anima di Vittoria, sperando bene di lei, per la morte sostenuta con atti eroici di carità; tanto più, che parve favorisse ancora il Cielo l’intenzioni del Papa; imperocché la notte, e la mattina, avanti ch’egli entrasse in lettiga diluviò a ciel rotto: poi si rasserenò in un tratto, perseverando il sereno fino al ritorno in Palazzo sull'imbrunire; ed allora l’interrotto diluvio ricominciò più copioso.

XXXVI. Ed ecco il fine tragico della Dama più vistosa d’Europa. Confessiamo ingenuamente, che qui dovremmo terminar la Storia, perchè sembrò, che Dio, nella morte di lei, terminasse di prendere le vendette di quanto gli Accorambuoni potessero aver commesso nell’uccisione del Peretti; e Dio stesso mostrò di avere fedelmente mantenuta la promessa antica di vendicar egli le offese ricevute da coloro, che perdonano per amor suo, come al riflettere dell’Anonimo, avea perdonato il nostro degnissimo Cardinale; ma perchè servirà d'ammaestramento il sapere l’ultima scena di questa Tragedia; e riuscirà cosa grata veder gli effetti delle preghiere di Vittoria per li crudi uccisori suoi; quindi proseguiremo in tal guisa il funesto racconto.

XXXVII. Terminata la barbara uccisione, andò immantinente Scipione Longo a renderne consapevole Lodovico, il quale spinse Scipione a farne avvisati i Rettori della Città; e questi, senza indugio, spedirono Domenico Accialino Giudice al Palazzo della trucidata per farne il Processo. Tra gli altri indizj, ebbe, che un certo Furio Savorgnano da Udine, paggio in prima di Paolo Giordano, e poi soldato di Lodovico, fu veduto entrare in detto Palazzo; ma gli altri non furono riconosciuti, perchè si erano travestiti; ed avevano al mento barbe posticce. I Rettori ne informarono tantosto il Senato; e Lodovico fingendosi innocente, andò con settanta de’ suoi a fare istanza a’ Rettori, affinchè comandassero una diligente custodia delle ricchezze, che avea lasciate Vittoria di lui cognata. Risposeri i Rettori che non se ne prendesse pensiero alcuno, impegnando essi la parola del Principe, ma ch’egli altresì consegnasse gli uccisori, assicurati nella sua casa: Io nulla so di questo, rispose Lodovico, sed manet alta mente repostum: ad una risposta sì fuor di proposito, e ad un modo cotanto improprio, e sprezzante idearono arrestarlo allora sul fatto; ma perchè forse ciò non si sarebbe eseguito senza spargimento di sangue, essendo egli assistito dalle sue genti, stimarono esser meglio usar dolcezza, che l’assicurasse, non acerbità che lo stimolasse alla fuga; come in fatti stimando egli più del dovere le proprie forze, e meno quelle della giustizia, non attentò la fuga, che avrebbe potuto prendere facilmente.

XXXVIII. Mentre i Rettori aspettavano le deliberazioni del Regio Conseglio; ed intanto invigilavano sopra ogni andamento di lui, furono intercette alcune sue lettere, con le quali dava relazione a gli amici in Roma di quanto per suo comando era succeduto contra Vittoria, e gli Accorambuoni; e in una lettera particolarmente scherniva i Signori Veneti con imprudentissima jattanza; trasmesse le dette lettere al Senato, spedì l’antivigilia di Natale Luigi Bragadino, uno de’ Capi del Consiglio de’ Diece con autorità suprema d’Avvogador di Commune; il quale comandò, che o vivo, o morto li fosse consegnato Lodovico, e spianata la casa a terra, dove si era fortificato co’ suoi seguaci. Non sapevano concepire i Savj, come Lodovico fosse così accecato in persuadersi di poter contrastare con la Repubblica; tantopiù che vedevano circondar d’armati la casa, ed apparecchiare alcuni piccoli pezzi d’artiglieria; ed era corso il proclama del premio a chi ne portasse in trionfo il Capo. Or mentre il popolo spettatore ridevasi della scioccaggine di lui, si affacciò egli ad una finestra; e con molta alterigia gridò; Che cosa è questa? Non si fanno simili violenze a’ miei pari.

XXXIX. Avendo però veduto l’apparecchio dell’Artiglieria, si armò egli ancora co’ suoi alla disperata, come racconta minutamente Cesare Campana. Dimostrava egli è vero Lodovico un animo incapace d’avvilirsi; ma impegnatosi il Principe a volerlo, non era che una frenesia farsi forte su gli occhi di lui. Già si stava per dar fuoco, quand’egli domandò tempo di scrivere un biglietto a’ Rettori, e benignamente gli fu conceduto, perchè si aspettavano d’aver qualche umiliazione. Scrisse per tanto loro in tai termini.
Io stupisco, che contro di me, et casa mia si proceda con sì rigoroso modo per esecutione d ’una causa non conosciuta. Et pure dovreste ricordarvi, ch’io sono Ludovico Orsino, figliuolo di Giordano, et nipote di Valerio, et di Bartolomeo d’Alviano, ciascuno de’quali tanto prontamente in tante occasioni hanno esposta, et in ultimo spesa la vita in servitio di questo Stato. Et poiché la casa mia deve havere tal ricompensa, per sì lunga, fedele, et continuata servitù, non dirò altro, se non che mi restrignerò nelle spalle, et aspettarò l'esito di questo negotio con quella intrepidezza d’animo, alla quale me obbliga la fameglia Orsina: Et poiché le Signorie Vostre non vogliono proceder meco co’ termini ordinarij della giustitia, alla quale io sarò sempre obedientissimo, me protesto; et ne chiamo Dio, et il mondo in testimonio, che prima, che far atto indigno, quella vita, che apertamente me se vuo torre, contra ogni termine de pietà et de giustitia, mi sforzarò di contraccambiare con altrettanto sangue; lasciando in un istesso tempo un chiaro, et infelice esempio, con la morte mia, della mia innocenza, et della mala fortuna di casa Orsina con questa Repubblica. Con che bacio loro le mani.

XL. Mentre scriveva questa lettera fece intendere a’ Rettori ch’egli si sarebbe arreso, quando però li fossero menate buone alcune sue condizioni. Ma perchè i Ministri della giustizia avevano raggiunto Domenico da Castello, cui trovarono addosso pistola, e barba posticcia; ed avevano fatti prigioni il Capitan Cecco della Mandola, e Scipione Longo, i quali confessa¬rono il delitto,32 risposero i Rettori, che non era tempo da capitolare, perchè l’eccelso Senato non capitolava se non con teste coronate; e che però voleva solamente da lui prontissima ubbidienza: onde ricevuta avendo questa risposta, mentre stava per chiudere la lettera, vi aggiunse tali parole: Poiché non si accetta veruna conditione, tutto si farà per salvar la vita. E sigillato il foglio lo diede al suo Segretario Francesco Filelfo da Tolentino.

XLI. Quest'ultime parole irritarono altamente i Rettori; onde Luigi Bragadino Avvogadore comandò la scarica dell'Artiglieria; per cui cadendo una cantonata della casa, cadde insieme Lorenzo de' Nobili Colonnello, il quale aveva sempre esortato Lodovico a morir piuttosto, che arrendersi; e seco precipitarono Liverotto Paolucci, e Francesco Montemellino da Perugia, a’ quali furono tagliate le teste, e mandate a Venezia; ma Liverotto ebbe prima tempo da gettare in un pozzo (contiguo al sito dov’era precipitato) un plico di lettere, le quai ripescate, vi si scoperse l’ordine ricevuto da Lodovico di ammazzare Vittoria.

XLII. Cadendo in tanto rovinosa, a pezzi a pezzi, la casa, già l’Orsino si vedea perduto; e ambiva morir schiacciato dalle rovine. Se non che esortato dal Segretario a morire almen da Cristiano, deliberò di arrendersi. Per il che condotto avanti i Rettori, gli fu ordinato dall’Avvogadore, che deponesse l’armi; ed egli nel porgerle, disse con militare spirito: Habbiate cura di quest’armi, perchè di tal tempra non se ne trovano ovunque. Ed immantinente ascoltò intimarsi la morte. Accolse il funestissimo annunzio con ammirabile tranquillità d’animo; e rientrato in se stesso, fece una diligente confessione Sagramentale de’ suoi peccati, in quelle poche ore, che gli furono concedute; perchè fu osservato, che l’annunzio della morte non gli tolse niente della sua solita presenza di spirito; onde dispose ancora tranquillo delle cose più importanti; e siccome ottenne la grazia di poter fare testamento; così con mano veloce, senza notabile alterazione, scrisse una lettera alla sua dilettissima consorte, che dimorava in Venezia; il contenuto della quale si epiloga in tal guisa dal nobile Aquilano. L’esortava prima a sostenere con animo generoso il dolore del suo supplicio; et ad uniformarsi alla volontà di Dio, et della giustitia: pregavala a pagare alcuni suoi debiti, de’ quali ne dava minuto ragguaglio: raccomandavate caldamente i suoi servitori: comandavale, che trovandosi nel fiore dell’età sua, dovesse al tutto rimaritarsi, et donavate tutte le gioie da lui compratele, et altre robe di gran costo. Lasciavala universale herede del suo havere mentr’ella viveva, quand’ella pur non si fosse voluta rimaritare; ma dopo la morte di lei ordinava altri heredi. Donò l’armi sue, che molte ne haveva et riguardevoli alla Signoria, che le accettò, et felle riporre nella gran sala dell’Armamento, dove tra tant’altre migliaja di nobilissime arme, ancora si veggono.

XLIII. Così disposte le sue cose temporali, e l’eterne, come speriamo, terminò la vita, soffogato da un laccio di seta cremisì, la mattina de’ 27 Dicembre 158533 e fu sepolto nella Chiesa di S. Maria dell’Orso, dov’erano l'ossa del Genitore, e dell’Avo. Gli altri suoi Bravi furono diversamente puniti, a proporzione della gravezza degli eccessi loro; recando stupore il vederli morire con animo assai ben disposto. Ciascuno fece la confession generale: ciascuno voleva essere il primo a morire, e tutti scambievolmente s’animavano a morire per soddisfare alle proprie colpe. Chi aveva obbligo di restituire, o la fama, o la roba, adempiè le sue parti, e se alcuno per povertà non potè, supplì il compagno, protestandosi tutti di meritare ogni più severo supplicio: ma quello che inteneriva all’udirli, era ch’eglino riconoscevano tanta grazia, che Dio compartiva loro, dalle intercessioni di Vittoria; quasi il perdono tante volte dato loro da lei, e replicato nell’atto di spirare, avesse impetrato per se medesimi la remissione, come speravano, di tanti eccessi.

XLIV. Il Conte Paganello, e Splandiano furono più severamente puniti. Che Tolomeo Visconte fosse stato il crudo uccisor di Vittoria, si seppe dipoi, che fu appeso al patibolo con altri sedici compagni. Il Segretario di Lodovico ebbe quindici anni di prigionia, e tre altri n’ebbero minor tempo. Sette furono sentenziati al remo per un triennio; e diece assoluti come innocenti.34 Ed ecco terminata la narrazione di questa vera tragedia, che si divulgò per tutta l’Europa; e fu descritta da cento e cento autori; ma sempre in commendazione del nostro amplissimo Cardinale, il quale essendo riuscito bene alla prova, che Dio volle fare di sua virtù, entra ora in conclave per la morte di Gregorio XIII d’onde nel seguente Libro il vedremo uscire rimunerato gloriosamente dal Donator d’ogni bene, con la suprema dignità del Sommo Pontificato.

Il Fine del quarto Libro

2. Vittoria poetessa
La Veneranda Biblioteca Ambrosiana di Milano.

Fondata nel 1607 dal Cardinale Federico Borromeo ed inaugurata nel 1609 come Biblioteca aperta al pubblico, tra le prime del mondo, la Veneranda Biblioteca Ambrosiana di Milano sita al n.2 di Piazza Pio XI, viene citata dal nobile e studioso montaltese Pier Simone Galli nel suo manoscritto senza data, verosimilmente nella seconda metà del ‘600 o al massimo nel primo decennio del ‘700, a proposito dell’esistenza del Lamento o Disperata in terza rima che sarebbe stato composto da Vittoria Accoramboni per la morte del marito Francesco Peretti.
Di Vittoria poetessa, Brigante Colonna35 scrive che ...”già il poeta Girolamo Catena le aveva dedicato i suoi esametri latini; qualche altro adoratore cortigianesco la fece parlare orgogliosamente in endecasillabi:

Nacqui dotata di beltà divina
e fra quante mai fur vissi famosa

ed anche:

La gran Vittoria io son ch ’el pregio tolsi
di beltade alle Greche e alle Latine...

Cresciuta in una famiglia di studiosi illustri,36 non stupisce che anch’essa si dedicasse a comporre qualche verso; e poetessa la dice addirittura il gesuita Quadrio che presunse di riesumarne dall’Ambrosiana qualche manoscritto, riconosciuto, più tardi, d’altra scrittrice (di certa Virginia N.); e poetessa seguitarono a dirla il Tiraboschi, il Ginguené, il Mazzucchelli ed infiniti altri: certo il De Rosset, che visse a Roma intorno a quel tempo, tradusse in francese una poesia che affermò essere di Vittoria.”

Pier Simone Galli cita anche Alessandro Bovarini, il cui volume di Rime ho rinvenuto nello Schedario dei libri stampati della Biblioteca Ambrosiana (in occasione delle ricerche effettuate nei giorni 14 nov. 2003, 22 nov. 2004, 6 apr. 2005) e che ho potuto così consultare.37 In testa alla pag. 98 il Bovarini riporta appunto, Della Signora N., il seguente sonetto:

IN van tentai con molto studio, ed arte
Celebrar ne’ miei detti il bel sembiante
Di quel viso Roman, cui gratie tante
Natura benignissima comparte.

Che mia Musa non può trarsi in disparte
Da quello stil sì vario, e sì sonante,
In cui tal’hora, ò BOVARIN, si cante
Vostra beltà, che splende in ogni parte:

Io dunque accorta del mio folle errore,
Ben picciol dono, et al gran merto indegno
Vi consacro i pensier, le rime, il core;

E s’avverrà, che non habbiate à sdegno,
Ch’io mova i bassi accenti à farvi honore,
Farò ‘l mio canto un giorno ancor più degno.

A pag. 99 risponde al precedente sonetto d’una Signora, che con alcune rime haveva lodato un gentil’huomo Romano:

LE bellezze del Ciel quagiù cosparte
Nel bel Roman, di cui voi siete amante,
E le gentil maniere, e l’opre sante
Son degno obbietto de le nostre carte:

Mà di far di sua lode à mè tal parte
In van ben tentereste, e stile errante
Ben sarà ‘l vostro, se gran lume avante
Havendo hor di beltà, dal ver si parte.

Cantate dunque il vago suo splendore,
Degna Sirena, che ‘l vostro alto ingegno
Cantar sol può di sue bellezze il fiore.

Io gratie rendo à voi, ch’à più d’un segno,
Mostrate d’honorarmi, e à tutte l’hore
N’avrò del vostro amor non leggier pegno.

A pag. 104 il Bovarini riporta altro sonetto della Signora N.:

ERA vicino ad appressarsi il Sole
Al bel Monton38, di cui le corna indora
Ne la stagion, che ‘l Mondo s’innamora,
E la terra rinova herbe, e viole:

Quando l’altere luci uniche, e sole,
Le luci, che Natura, e ‘l Cielo honora,
Lieto vèr me voi rivolgeste all’hora,
Che fiammeggiar sorgendo Hespero suole,

E quindi avvien, che ‘l core ancor trabocchi
Di soverchia dolcezza, e ‘l pianto, e ‘l duolo
Fuggon da mè perpetuamente in bando.

Hor se tanta virtute hanno i vostri occhi,
O’ gentil BOVARINO, e un guardo solo,
Per ch’arder non dev ‘io, voi sempre amando?

A pag. 105 risponde per le rime al precedente sonetto mandatoli da una Dama:

QUELLA virtù, che par, ch’ardendo invole
Gli spirti altrui, VIRGINIA, ahi che dimora
Ove più fresca etate il viso infiora,
In cui vera beltà s’honora, e cole.

Face, che non risplende, Amor non vuole,
E ‘l foco suo già per mè spento fora,
Che da mè luci hor più non escon fuora.
Faville; il vostro error m’annoia, e duole.

Ch’un rintuzzato strai, eh’in gioco scocchi L’Arder di Gnido in amoroso stuolo,
Non fere à morte i petti, e i cor passando.
E per che leggiermente prema, e tocchi Altrui tal’hora un debil filo, e solo,
In duri lacci non si và cangiando.

A pag. 120 riporta altro sonetto d’una Signora, eh ’amando non conseguì il suo pensiero:

QUAL veltro, che le fauci hà già su ‘l dorso
D’altera Cerva errante, e fuggitiva,
Cui, se rio sterpo se gli oppone, il priva
Del desiato suo felice morso:

Tal’io nel fin de l’amoroso corso,
Quando à la speme il cor lieto s’apriva;
Mentre prender credea vostra alma schiva,
Trovai vil tronco, ch’à voi diè soccorso.

Onde hor ne prego Amor, e nel riprego,
Che del suo campo homai sterpe, e divella
La steril pianta, che gli amanti offende.
Voi, BOVARIN, mentr’io mi sciolgo, e slego
Di nuovo al corso, ò gentil fera, e bella
Frenate il passo, ch’à fuggir intende.

A pag. 121 Leandro Bovarini risponde per le rime scusandosi per l’età'.

Mi pregierei se ‘l vostro cor soccorso
Esser da mè potesse, ove s’avviva
In lui la fiamma, onde felice à riva
D’Amor giungeste senza sprone, ò morso:

Mà 'l pregio di bellezza, ove ricorso
E’ vostro affetto, se in mè pur fioriva
In alcun tempo, e celebrar s’udiva,
Homai col fior de gli anni in tutto è corso.

Però ver biasmo, e di biasmar non nego,
VIRGINIA, ogni altra, che d’Amore è ancella.
Per tal, che la sua face oscura rende:

Che non conviensi; et ogni ardente prego,
che da gli amanti ognihor si rinnovella,
Indegno stimo, ove beltà non splende.

Una “Disperata” famosa

Erasmo Percopo19 commenta la più celebre “Disperata”, sulla cui attribuzione si è a lungo dibattuto, ma il cui autore egli indica in Antonio Cammelli detto il Pistoia, rimatore toscano, n. a Pistoia (1436-1502), composta per Ludovico Sforza detto il Moro (1452-1508) duca di Milano, in occasione della scomparsa dell’amata moglie Beatrice d’Este, morta di parto a 22 anni, la notte del 3 gennaio 1497. Verso la fine della “Disperata”, Ludovico il Moro davvero ‘disperato’ per la perdita della giovane consorte, invoca Satanasso e gli offre l’anima! (p. 704):

O imperator de la cità di Dite,
non tardar più, ch’io son al punto extremo,
per dar fine una volta a tanta lite.
Tômi per carta e fâme un don supremo:
l’anima regni teco, il corpo lasso
à lupi: hor, Morte, vien! ch’io non ti temo.

Nel 1726 Luisa Bergalli dà alle stampe una raccolta di Rime di illustri Dame Italiane con brevi notizie biografiche delle medesime.40 Nella “Tavola delle Rimatrici contenute nella Prima parte con una breve notizia intorno ad esse”,41 l’autrice annota:

Vittoria Corombana il componimento che di questa io riporto è tolto da un M.S. di Francesco Melchiori esistente presso l’IIlustrissim. Sign. Orazio Amalteo di Uderzo, fiorì ella del 1510.42

E a pag. 125, titola appunto: VITTORIA COROMBANA 1550. (Altra data inesatta,v. nota 42)

Temerario pensiero,
Che t’innalzasti al Ciel pronto, e leggero,
Non per bearmi in alto,
Ma per farmi cader di mortai salto.

Tu nel mio volo audace
Mi promettesti una tranquilla pace,
Poi, lasciandomi a terra,
Mi desti in sorte una perpetua guerra.

Ahi! Che l’altrui morire
Fu sol cagion del mio soverchio ardire;
Che s’io penso sovente
Al bel passato accresco il mal presente.

Dunque, se il mio pensiero
Fu sol cagion del precipizio fiero;
Occhi dolenti miei, piangete tanto,
Fin, che la vita si distilli in pianto.43

Nella Parte II della raccolta di Rime Luisa Bergalli riporta, a pag. 79:

VIRGINIA N. 1596 (Vittoria venne assassinata la notte del 22 die. 1585)

e ripropone i sonetti “Era vicino ad appressarsi il Sole...” e “Qual veltro, che le fauci ha già su ‘l dorso...”44

3. Aspetti storiografici

Fonte prima di tale storia è il libro di Domenico Gnoli “Vittoria Accoramboni", edito da Le Monnier nel 1870, il primo e unico ad avere approfondito in maniera scientifica l ’argomento.

Così scrive Gianluigi Barbi in Vittoria e Sisto, una donna e un papa,45 facendo poi seguire le sue ricerche nelle biblioteche di Roma e nell’archivio comunale di Gubbio.
Tra l’indice delle materie contenute nel volume ROMA VARIE46 consultato nella Veneranda Biblioteca Ambrosiana, compare il titolo: Felicità, ed infelicità, e funesto fine di D.a Vittoria Accoramboni 158547 nel Pontificato di Sisto V (pp. 18-43):

Alli 26 Dicembre di quest’anno 1585 con molta compassione del pon¬tefice Sisto V si sentì in Roma l’infelice morte di Vittoria Accoramboni moglie del Sig.re D.n Paolo Giordano Orsino Duca di Bracciano, seguita in Padova li 18 di d.° mese48 sulle tre ore di notte per mano di Assassini nella sua propria casa: accidente, il quale perche ebbe i suoi primi elementi, e come qualcheduno anche crede, le proprie cause per Disposizione della Divina Giustizia,...

Il caso, clamoroso, sconvolse letteralmente l’intera città di Padova. E non solo. Per avere un’idea concreta di quanto la tragica vicenda abbia avuto risonanza nel tempo in Italia ed anche fuori, è utile riferirsi al libro/studio di Gunnar Boklund pubblicato ad Uppsala nel 1957, dal titolo: The sources of The White Devi,49 con palese riferimento alla tragedia scritta dal drammaturgo inglese John Webster e pubblicata a Londra nel 1612. Boklund riporta una lunga serie di manoscritti che trattano l’argomento, rinvenuti in biblioteche di vari Paesi; vale la pena di riferirne in elenco, a testimonianza del grande numero di persone che si sono cimentate nel raccontare la tragica sorte di Vittoria:

Austria
Nationalbibliothek, Vienna

Inghilterra
University Library, Cambridge
British Museum, London
Bodleian Library, Oxford

Italia

Biblioteca dell’Archiginnasio, Bologna
Biblioteca Universitaria, Bologna
Biblioteca Federiciana, Fano
Biblioteca Marucelliana, Firenze
Biblioteca Medicea Laurenziana, Firenze
Biblioteca Nazionale Centrale, Firenze
Biblioteca Riccardiana, Firenze
Biblioteca Ambrosiana, Milano
Biblioteca Nazionale, Napoli
Biblioteca Civica, Padova
Biblioteca del Seminario, Padova
Biblioteca Oliveriana, Pesaro
Biblioteca Forteguerriana, Pistoia
Biblioteca Angelica, Roma
Biblioteca Casanatense, Roma
Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele, Roma
Biblioteca Vaticana, Roma
Biblioteca Comunale, Siena
Biblioteca Marciana, Venezia
Biblioteca Museo Correr, Venezia
Biblioteca Comunale, Verona

Stati Uniti d’America

Library of thè University of North Carolina, Chapel Hill
Folger Library, Washington

Per quanto riguarda i libri a stampa (printed works), Boklund riporta ben 119 titoli, più due riferimenti rispettivamente a Mazzatinti Giuseppe et altri (Inventari dei manoscritti delle biblioteche d’Italia ), 80 volumi, Forlì-Firenze, 1890 ed all’ Inventario dei manoscritti italiani delle biblioteche di Francia, 3 vol., Roma 1886-1888. Infine cita TANNENBAUM SAMUEL A., John Webster, A concise Bibliography, New York 1941. John Webster, drammaturgo londinese (1575ca.-1624ca.) tra i maggiori dell’epoca elisabettiana, pubblica a Londra nel 1612 The White Devii, or, thè Tragedy of Paulo Giordano Ursini, Duke of Brachiano, with the Life and Death of Vittoria Corombona the famous Venetian Curtizan.

Boklund cita in bibliografia i seguenti autori:

- Cesare Campana, storico contemporaneo al Tempesti (sec. XVIII)
- Domenico Gnoli, autore di Vittoria Accoramboni, Firenze 1868
- Alexander von Hübner
- Gregorio Leti
- Giovanni Maria Mazzucchelli
- Ernesto Mezzabotta
- Gaetano Moroni (vol. LXVII, Venezia 1854)
- Ludvig von Pastor
- Francesco Saverio Quadrio
- Antonio Riccoboni
- Stendhal (Henri Beyle), Chroniques italiennes, Ed. Doyon, Paris 1921. Come cronaca tratta dai manoscritti italiani, Vittoria Accoramboni, terminata a fine agosto 1836, sarà pubblicata su “La Revue des deux Mondes” il 1° marzo 1837.
- Casimiro Tempesti.
Ed infine segnala nella Biblioteca Vaticana, Capponi, v. 364.int.3:

Il Miserabile compassionevole caso, successo nella città di Padova con li nomi, & cognomi delti Morti, condennati & assoluti, & il tempo della condennatione. (Sotto, a mano: V. Accorambona).

4. Virginia o Vittoria?

Nella ricognizione presso la Veneranda Biblioteca Ambrosiana di Milano, la vove 'Virginia', come accennato nella nota 44, non compare neanche nello schedario elettronico consultato. Dall'Indice Universale della Storia e ragione d'ogni poesia scritta dall'abate Francesco Saverio Quadrio, Milano 1752, ho tratto le seguenti indicazioni:

Virginia, sue notizie:50

“Un altra Virginia N. si trova essere stata Poetessa, della quale esistono Rime fra quelle di Alessandro Bovarini, fra quelle del Cavalier della Selva, e altrove. Un lungo componimento estratto dall’Ambrosiana, dove MS. si serba, e a noi mostrato dall’altrove lodato Dottor Giuseppe Vecchj, ci ha scoperto il cognome della medesima. Esso porta per titolo: Lamento di Virginia N.; ed è quasi una Disperata51 in terza rima, piena d’imprecazioni contra coloro, che le uccisero il marito, la cui morte è con tali circostanze descritta, che non lascia luogo a dubitare di chi ella fosse. Fu ella dunque Virginia Accoramboni, venustissima, e ingegnosissima Donna, e di altissima mente fornita, come la chiama Antonio Riccoboni, che la tragica storia di lei compendiosamente racconta. Ella era moglie di Francesco Peretti figliuolo d’un fratello52 di Sisto V Pontefice. (Segue la storia di Vittoria, in sintesi).
(Alla fine): ...In morte intanto della misera Donna, che in quel giorno stesso, che uccisa fu, si era per sua fortuna de’ Divini Sacramenti armata, una Raccolta manoscritta di Rime, insieme coll’infelicissima storia, ma con ogni minutezza descritta, si conserva nell’Ambrosiana”.

Accoramboni Felice:53

Egli è pure autore di Rime nella Raccolta per Donne Romane.
Ancora Virginia, sue notizie:54

“Di Virginia N., o sia di Virginia Accoramboni, della quale altrove parlammo, noi abbiamo veduto il lamento in Terza Rima da lei composto in morte del Marito uccisole: e MS si trova nella Biblioteca Ambrosiana”.

Consulto poi Giammaria Mazzucchelli:55

“Accoramboni (Virginia)56 è quella poetessa Volgare, di cui si hanno Ri¬me fra le Poesie di Alessandro Bovarini, fra quelle del Cavalier della Selva, ed altrove, sotto il nome di Virginia N. Il merito di questa scoperta debbesi al diligentissimo P. Quadrio che l’ha tratta da una Raccolta MS. di Rime in morte di lei, alle quali è annessa la sua vita minutamente descritta, e si trova nella Libreria Ambrosiana di Milano. Di essa vita si può leggere un compendio presso il detto P. Quadrio. Fu moglie di Francesco Peretti, figliuolo d'un fratello del Pontefice Sisto V.57 (Segue la descrizione della vicenda, molto sintetica). ...Fra l’altre Poesie ella compose pure un Lamento o sia una Disperata in terza rima contro coloro che le uccisero il marito, la quale altresì esiste nell’Ambrosiana di Milano.

Nello stesso volume (p.78/79) è citato Accoramboni Fabio, (n.1502), giureconsulto di Gubbio; (p.80) Accoramboni Felice, fratello di Fabio, nobile di Gubbio vissuto intorno alla metà del ’500 e Accoramboni Girolamo, medico, vissuto intorno alla fine del XV sec., padre di Fabio e Felice. Tutti e tre sono elencati dal Mazzucchelli tra i letterati italiani, in quanto autori di opere di vario genere: Diritto (Fabio), Filosofia (Fe¬lice), Medicina (Girolamo).

5. La bellezza di Vittoria

Nella pittura si possono distinguere due modi di approccio all’arte del ritratto. Uno è quello che raffigurava il personaggio per quanto esso rappresentava nella società dal punto di vista istituzionale, del rango sociale o del livello e qualità del ruolo ricoperto; ritratto ricco di attributi ‘esteriori’, accuratamente descritti e immediatamente visibili, ma generalmente privo di quel ‘soffio vitale’ che avrebbe potuto trasferire all’osservatore l’intrinseca natura del soggetto rappresentato. L’altro è invece la raffigurazione della persona in cui il pittore è riuscito a cogliere fin nel profondo le sfumature psicologiche dell’animo, secondo l’ideale di Leonardo: Il pittore ha da dipingere due cose: l'uomo e il concetto della mente sua. Ebbene, i due ritratti di Vittoria Accoramboni di cui mi è stato possibile venire a conoscenza, esemplificano egregiamente questa ambivalenza.

Il ritratto del personaggio Vittoria è quello rappresentato nella tela della Collezione del Conte Marcantonio Caracciolo del Leone,58 opera del pittore fiorentino Alessandro Allori detto il Bronzino: Vittoria è in abiti principeschi ricchi di leggerissime e decorative trine, l’ovale oblungo del viso, gli occhi fissi in avanti in atteggiamento serio e pensoso, senza il minimo accenno all’ombra di un sorriso o ad un moto percettibile delle labbra; la fronte è ampia e scoperta e i capelli raccolti rigidamente all’indietro. E’ la Vittoria ambita dalla società più in vista nella Roma del Cinquecento, ricercata per la sua portentosa attrattiva nel favellare, nel complimentare, negli atti, nel portamento...60

Del tutto diverso è invece l’altro ritratto, della persona, riportato tra le pp. 32 e 33 del cit. volume di Gianluigi Barbi, Vittoria e Sisto, una donna un papa conservato nel Palazzo Comunale di Gubbio.61 Qui è proprio la ‘donna’ Vittoria, con i suoi dubbi, i suoi ideali, le sue fragilità, la sua sensualità a proporsi all’osservatore: l’abito, dignitoso ma dimesso o comunque non vistoso come il precedente, presenta una generosa scollatura, gli occhi sono grandi e accennano ad un sorriso, così come le gote e le labbra tumide; gli stessi capelli sono acconciati semplicemente e si dividono ai lati della fronte a incorniciare un viso più ‘rotondo’ e florido; vezzo ricercato, una ciocca di capelli che spunta sopra la spalla sinistra; in alto a destra del dipinto: Victoria Orsini de Accorambonis.

Conclusioni

Proprio l’osservazione dei due ritratti mi suggerisce le considerazioni di chiusura. Abbiamo conosciuto non una ma due Vittorie, come in realtà emerge dalle vicende narrate: la giovane che dalla provincia si porta a Roma, al ‘centro del mondo’, e viene subito apprezzata per la sua grazia, la sua avvenenza e la sua intelligenza. Nuove sensazioni, moti diversi dell’animo di una appena sedicenne si accavallano verosimilmente ad appaganti emozioni nel matrimonio con Francesco durato poco meno di otto anni. E’ la naturale storia di una ragazza ‘in vista’, nella particolare società romana di allora, ravvisabile nel secondo ritratto.

Poi si insinua inesorabilmente nella vita di Vittoria l’ombra sinistra della tragedia: dall’uccisione di Francesco alla morte di Paolo Giordano Orsini, ricco, ma non certo dotato di vera attrattiva fisica per una giovane e bella donna ora ventottenne, passano poco più di quattro anni e mezzo. Si ritrova lontana dalla sua terra e da Roma, di nuovo vedova e senza protezione, benché sostenuta dal fratello Flaminio, ma fatta oggetto delle mire avide e senza scrupoli di Ludovico Orsini che intende appropriarsi del cospicuo patrimonio ereditato da Paolo Giordano. E’ la Vittoria ‘personaggio’, quella del primo ritratto che qui emerge, al centro di una turbinosa vicenda che la vede rivolgersi al Duca di Ferrara, al Senato della Serenissima, forte del lignaggio acquisito, al Papa stesso che vorrà in ogni conto ajutarla.

A Vittoria restano ora da vivere soltanto altri 39 giorni. L'amaro destino si compirà con una strana coincidenza: ella muore, trucidata, il 22 dicembre; e 1332 anni prima, il giorno 23, si narra che era stata sepolta la vergine Santa Vittoria, vittima della persecuzione dell’imperatore Decio. Anche Vittoria Accoramboni muore eroicamente, chiedendo perdono a Dio e perdonando ai suoi assassini: Ohimè, che avemo fatto? havemo ucciso una Santa, pare che abbiano esclamato, attoniti !

IL PALAZZO ACCORAMBONI DI GUBBIO

Il 15 febbraio 1557 vi nacque Vittoria, decima di 11 figli. Il grande edificio cinquecentesco è situato nel centralissimo e ampio Corso Garibaldi che si apre in bella prospettiva verso il Palazzo dei Consoli da un lato e da quello opposto verso la statua di S. Ubaldo, Protettore della Città.62

Le nove fotografie che seguono sono state scattate in data 10 agosto 2004.

Il Santuario di S. Ubaldo sull’alta collina a ridosso della città di Gubbio.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI AGGIUNTIVI

- Unione Romana Biblioteche Ecclesiastiche (URBE). Documento ALF 0022485 SH Accoramboni, Vittoria, duchessa di Bracciano, 1557-1585, Biografia.
- Università di Pisa. Scuola Normale Superiore, Cat. generale. Johann Ludwig Tieck, Vittoria Accoramboni, tradotto da G.E. Furzi, Firenze 1843, 585p. Collocaz.: 1.873.7T559.
- Biblioteca Nazionale Braidense. Giulio Marchetti Ferrante, Rose del mondo: Giulia Farnese, Giovanna d’Aragona, Vittoria Accoramboni, Bianca Cappello, Maria de’ Medici, Milano 1932, Casa Edit. Ceschina, 339 p.
- Biblioteca Comunale Ariostea, Ferrara. Fabio Pittorru, Il caso Vittoria Accoramboni, Milano 2004, Net., 314p.

SCHEDARIO BIBLIOTECA STORICA DI FERMO

Omissis

NOTE

1 Dal 2 aprile 1995, nel palazzetto ex torre civica in piazza Umberto I.

2 Come la chiama RAFFAELE NUCCI in Vittoria Accoromboni, Un tragico destino di donna troppo bella. Relazione tenuta al Rotary Club di Gubbio e Gualdo-Tadino in data 23.12.1968. Vengono citati in bibliografia 18 autori. Gubbio, Biblioteca Comunale Sperelliana (BCS).

3 Archivio Storico Comune Montalto (ASCM). In occasione del trasferimento della salma di Francesco Peretti in Santa Maria Maggiore, GIUSEPPE CASTIGLIONE di Ancona compone nel 1588 il Carme: In Fvnus / Francisci Peretti / Sixti V. Pont. Max. / Nepotis / Ad Alexandrvm / Perettvm Cardinalem / Montaltvm / Joseph Castalionis / Anconitani Carmen. Romae Apud Franciscvm Zanettvm M.D.L.XXXVIII. (V. più avanti note filologiche di Cristina Emidi).

4 BRIGANTE COLONNA, La nepote di Sisto V. Il dramma di Vittoria Accoramboni (1573-1585), Mondadori, Milano 1936. Gubbio, BCS.

5 Si fa risalire la vera origine degli Accoramboni di Gubbio a Oderighello e Gaddo, figli di Accorimbono (di Giovanni); v. ODERIGI LUCARELLI, Memorie e Guida Storica di Gubbio, Città di Castello, S. Lapi Ed., 1888. Gubbio, BCS.

6 In una Raccolta di poesie della BCS, si trovano le Rime Nelle Felicissime Nozze Degl 'III. mi Signori Conte Sebastiano Accoromboni Da Gubbio, e Contessa Rosa Gualterotti Da Città di Castello dedicate all'Ill.mo e Rev.mo Sig. Mons. Lucantonio Accoromboni Vescovo di Montalto dall'Abate Ludovico Calvucci, Fermo, 1718, pp. 133-154.

7 Raccolta di stemmi gentilizi spettanti alle famiglie eugubine eseguita nel 1841 e aggiornata nel 1941. Fondo Comunale Archivio di Stato di Gubbio, per g.c. Biblioteca Sperelliana, sez. Gub. 1- (75. Ringrazio il bibliotecario Sig. Massimo Cacciamani per la cortese disponibilità manifestatami durante la consultazione del materiale.

ASCM, manoscritto s.d. NOTIZIE DELLA CITTÀ DI MONTALTO / Ricercate, e raccolte / Da Pier Simone Galli / Per quanto è stato permesso, acciò si sappiano da suoi Figliuoli / E passino a memoria de' Successori / Scritte con purità di stile naturale senza lisci adulterini, che sogliono deturpare le Istorie / Con aggiunte diverse, ma riguardanti tutte la Città di Montalto, pp. 171v-172v.

9 Biblioteca Storica Comunale di Fermo (BSCF), Schedario n. 124 "Reus-rimario", RICCOBONI (ANTONIJ), De Gymnasio Patavino Commentariorum libri Sex. Patavij 1598 in 4° apud Franciscum Bolzetam, pp. 132v.- 133, segnatura: l.F.4./n.6893 xi.u.s. Ringrazio il sig. Maurizio Sciortino, le Dr.sse Luisanna Verdoni e Anna Jezzoni per avermi facilitato la consultazione; la prof.ssa Ines Amadio per la lettura del documento.

10 Francesco era figlio di Camilla, sorella di Sisto V, e non figlio del fratello. Tale errore verrà ripetuto per lungo tempo.

11 Decemvirum.

12 ASCM. Fascicolo manoscritto contenuto in Memorie della Citt di Montalto o vero continuazione di quelle gi raccolte Da Pier Simone Galli Per opera, e diligenza di Etragellio Daprani (anagramma di Pietro Andrea Galli) nell'1763.

13 Nato a Gubbio nel 1539, fu nominato Vescovo della Diocesi di Fossombrone il 15 marzo 1579. Commemorò con una solenne orazione la morte della sorella Vittoria e del fratello Flaminio, assassinati a Padova, e nel 1588 prese con sé nel palazzo vescovile la madre rimasta sola. Morì nel 1634 a 95 anni. Cfr. LORENZA MOCHI ONORI, in Le arti nelle Marche al tempo di Sisto V, di Aa.Vv., Silvana Editoriale, 1992, p. 135.

14 Marcello aveva commesso tre omicidi; e si rifugiava nel Castello di Bracciano.

15 O il 24 febbraio, come riporta il TEMPESTI in XV.

16 Circa dieci anni prima, in data 15 settembre 1575, così scriveva Paolo Giordano Orsini in una lettera inviata al Cardinal Carafa (vol. 61. Manoscritti Barberini): "Si degni V.S. Ill.ma farmi gratia d'un suo cavallo baio per la mia persona, poi che la gravezza et qualità del mio corpo, al quale non ogni cavallo buono, mi sforza,..." V. BRIGANTE COLONNA, cit., p. 45
17 Non ho rinvenuto il seguito della relazione.

18 ASCM, PIETRO ANDREA GALLI (Gentiluomo di Montalto), Notizie Intorno alla vera Origine, Patria, e Nascita del Sommo Pontefice Sisto V. Con un Ragionamento istorico sulla serie della sua Vita, Raccolte... sin dall'anno 1752 E pubblicate nel corrente MDCCLIV. (Volume affidato alla Biblioteca Comunale dal montaltese Renzo Candidori).

19 ASCM. Storia della Vita e Geste di Sisto Quinto Sommo Pontefice dell’Ordi­ne de’ Minori Conventuali di San Francesco, scrìtta dal P.M. Casimiro Tempesti del medesimo ordine. Tomo Primo. In Roma MDCCLIV. A spese de’ Remondini di Venezia. (LIBRO QUARTO, pp. 57-71. Virtù di Sisto nella proditoria morte del Ni­pote. Sventure di Vittoria Accorambuoni già vedova del Nipote di StSTO, e poi di Gior­dano Orsini. SlSTO è creato Pontefice).

20 Il 28 giugno 1573.

21 Era la notte tra il 16 e 17 aprile 1581.

22 Si era sotto il pontificato di Gregorio XIII (1572-1585) e pare che le bande di criminali che imperversavano nello Stato Ecclesiastico contassero addirittura 20.000 uomini! Si­sto V (1585-1590) combatterà con estrema fermezza tale fenomeno e nel 1588-89 nella serie dei coni di Francesco Mazio, verrà emessa una medaglia ‘Perfecta Securitas’ per celebrare il ristabilimento della quiete, dell’ordine e della sicurezza nelle strade. A tale proposito, è qui interessante riportare la testimonianza diretta di Leandro Bovarini, au­tore di Rime (pubblicate a Perugia nel 1602), il quale, tornando in Italia, a pag. 96...par­la seco del suo ritorno compiacendosi di poter vedere la sua patria sotto l’imperio di Si­sto Quinto:

Dopo l’haver fra pellegrini estrani, /Oltra rAlpi nevose, oltra l’Hibero, /Cerco vago per erto, e pian sentiero /Amene piagge, e lidi ermi, e lontani; /Ecco, Italia, che pur ne le tue mani /Salvo ritorno; in te ‘l mio nido vero /Potrò lieto mirar sotto l’impero/ Di SISTO ancor fuor de’ tumulti humani: //In te Roma veder più bella parmi, /E le ruine sue, che ‘l Mondo ammira /Rinovarsi, e poggiar per l’aria altere.//Quinci in antico stil leggiadri carmi /udir mi sembra, a l’una, e l’altra lira /Sol rinovar le glorie sue primere.

E a pag. 97 parla al paese natio rallegrandosi della sua sorte:

O’ DOLCE Terra, ô patrio nido amato, /Ond’io vissi lontano, hoggi è ‘l terzo anno, /Hor provando disagio, hor duro affanno, /Frà varie genti in periglioso stato: //Poi che sotto il tuo Ciel benigno, e grato /Salvo son giunto, ove soggiorno fanno /Letitia, e Pace, e muor l’Odio, e l’inganno, / Ben mi chiamo contento, e fortunato. //Vo tal’hor ripensando a’ i gran perigli, /che mal cauto soffersi, e ben m’è cara, /Hora che ne son fuor, lor rimembranza. //Ma più m’è caro hor co’ tuoi saggi figli /Passar l’hore del giorno, ove s’impara /Quanto può la Natura, e l’Arte avanza.

Bovarini Leandro o Leonardo (di Perugia), Rime, Perugia 1602 in 8°, collocazione S.N.D. IV. 86, Biblioteca Ambrosiana, Milano. Cfr. nota 37 a p. 123.

23 La salma di Francesco Peretti verni trasferita iti S. Maria Maggiore il 27 giugno 1588.

24 La città di Vittoria!

25 Il 24 aprile 1585, nella chiesetta di Grottapinta a Roma.

26 Ugo Boncompagni, bolognese (Gregorio XIII).

27 Era il 13 novembre 1585

28 Paolo Giordano Orsini era nato nel 1537; aveva sposato e poi ucciso Isabella de’ Medici.

29 Alle Porte Contarine.

30 La Vergine Vittoria, rifiutatasi di adorare Diana, di offrire incenso e di sacrificare in onore della Dea secondo le leggi di Decio (che era morto da circa due anni) venne in realtà martirizzata il 18 dicembre e fu sepolta il 23 dicembre dell’ anno 253 dell’era cristiana. In quell'anno si alternarono alla guida dell’Impero romano ben quattro im­peratori: Treboniano Gallo, Emiliano, Valeriano e Gallieno; quest’ultimo sospese la persecuzione contro i cristiani. V. Giuseppe Crocetti e Giovanni Settimi, Vittoria e Anatolia, Ed. La rapida, Fermo 1973.

31 I corpi di Vittoria e Flaminio furono sepolti nella chiesa degli Eremitani di Padova

32 Raffaele Nucci, cit., riporta a p. 16 che i tre assassini erano: Tolomeo Visconti da Recanati, il Conte Paganello Ubaldi da Arezzo, il capitano Splandiano Adami da Fermo.

33 Nelle prigioni del Palazzo del Capitanio di Padova.

34 Trascriviamo da BRIGANTE COLONNA, cit. l'Elenco dei Condannati, riportato alle pp. 276-277:

ELENCO DEI CONDANNATI
(Da una lettera di Orazio Contarini in data 4 gennaio 1586, all'abate Andrea Lipomani)
“A dì 21 detto furono amazzati nella battaria dall’Illustrissimo Capitanio in casa del Signor Ludovico Orsino li sottoscritti, quali cascorno nella muraglia, et dal Popolo su­bito tagliateli le teste mentre cercavano de salvarse:

- Il colonnello Lorenzo Nobili da Fermo.
- Il capitano Liverotto Paolucci da Camerino, il quale se trovò alla morte del Signor Vincenzo Vitelli.
A dì 27 detto, giorno de San Giovanni, fu strangolato in camera dell’Eccellentissimo Capitanio sopra una carrega de paglia piccola assiso: la prima corda di seta si ruppe, et con la seconda morì il Signor Ludovico Orsino, Governatore di Corfù.
A dì 28 detto furono impiccati li sotto scritti, quali erano di casa della Signora Vittoria che sapevano il tutto et apersero le porte:
- Furio Savorgnano da Udine, quale fu alla morte del Signor Francesco Peretti, carissimo servitore del signore Paolo Giordano bona memoria.
- Domenico da Città di Castello, secretario.
A dì 30 detto, lunedì, furono impiccati li sottoscritti colpevoli nella morte della Signora Accorambona:
- Tholomeo Visconti da Recanati, che ammazzò la Signora Accorambona di man propria, ma per avere accusato un frate del Santo di Padua per monetario, non fu fatto morire con altra morte che impiccato et senza tormenti.
- Evandro Campelli da Spoleto, famoso ladro, quale rubbò li danari che da Ancona andavano a Sua Santità, et ha confessato molti delitti et morte.
- Fabrizio de’ Cecoli da Bevagna.
- Francesco Graziani dal Borgo San Sepolcro.
- Pompilio da San Genesi quondam Fabio Ceri della Marca.
- Armodio Florido d’Acquasparta.
- Orazio Pisani da Belvedere.
- Valerio Paolucci da Camerino (fratello di Liverotto).
- Muzio Trentacoste da Camerino.
- Agrippa Tartaro da Montefalco.
- Tiburzio Tarch, da Roma.
- Andrea Tonioli “sette cotte”; questo è il figliuolo de Ranieri Astancolle.
- Alidarco Gentiletti Campelli, da Spoleto.
A dì detto, li sottoscritti furono tenagliati, accoppati et squartati per haver hauto il carico et maneggio, sopra due carrozze:
- Il Conte Paganello Ubaldi da Arezzo di Toscana.
- Il Capitano Splendiano Adami da Fermo. Questi due stentorno a morire, et dopo hauti li cortelli al petto per più di mezza hora, si alzorno su dando gran stramazzata et poi furno squartati.
Condannati alla galera:
- Sidonio d’Antonio d’Orti di Monte Melissi.
- Giovan Battista Rosati da Fermo.
- Felice A. d’Acquasparta.
- Paolo Amatoni da Rieti, servitore di Splendiano.
- Matteo Napolione da Taranto.
- Ottavio Egidi da Torrita.
- Antonio Maria Curzio Marchiano.
- Alfonso Carsopio da Temi.
Condannati alla prigione:
- Francesco Filelfo, secretarlo di Lodovico, a quindici anni.
- Camillo Mattei, Romano, per cinque anni.
- Onorio Adami, da Fermo.
- Ercole Bardarelli.
Assoluti:
- Domenico Cenassoni da Firenze.
- Giovan Jacopo da Montesecco.
- Luigi, paggio.
- Lelio Galerano da Viterbo.
- Scipione Longo, napoletano.
- Parasio Renati da Montefalco.
- Ascanio Sopranci da Chiusi.
- Capitan Cecco dalla Mandola.
- Giovanni Beltrame francese, cuoco.
- Francesco di Tonio francese, sguattero.
- Virginio Claudio da Montelupone fu mandato a Venezia per monetario, poi messo a morte.”

37 Si tratta in realtà di Bovarini Leandro o Leonardo, Rime in 8°, collocaz. S.N.D. IV. 86, BAM. Le Rime del Sig. Leandro Bovarini II furioso academico insensato di Perugia, stampate a Perugia da Vincentio Colombara, 1602, sono presentate all’ “Ill.mo et Eccell.mo Sig. Patron mio Colendissimo II Signor Marchese D. Alfonso D’Este”, con nota datata 1° novembre 1602 posta all’inizio del volumetto di 232 pagine, da Gio: Thomasso Giglioli che era stato ricevuto “nel numero de’ servitori suoi”. Il quale, atteso che “...giacevano nell’immeritate tenebre già lungo tempo le Rime del Sig. Leandro Bovarini”, si sofferma sulla opportunità di raccoglierle in un unicum "... per che come quando si compongono gli Arazzi, non può qual si voglia minuta particella rappresentare la compita immagine, ma solo può esser vaga, ò per colore, ò per altro simile artifitio; dove dall’unione di tutte le parti risulta (invece) la perfetta figura; così in un sonetto solo, ò in una Canzone, ò Madrigale non può vedersi se non qualche particella di colori, & della vaghezza della Poesia; dove dall'unione di molti di loro si genera mostra leggiadra, & dilettevole..."

45 Gianluigi Barbi, Vittoria e Sisto, una donna e un papa, Grafiche Benucci, Ed.Volumnia, Perugia 1975. Gubbio, BCS.

60 Casimiro Tempesti, cit.. I. 
61 Foto E.. Gavirati, Gubbio.

63 In Santa Maria Maggiore.
64 La fontana dell’Acqua Felice, opera dell’architetto Domenico Fontana, voluta da Sisto V che vi fece condurre l'acqua da una sorgente nei pressi di Palestrina, impegnando nei lavori non meno dei 2000 uomini e più di 300 mila scudi d'oro.
65 Il Viminale.
66 La Cappella Sistina in S.Maria Maggiore o del SS.Sacramento o anche del Presepe ivi fatto trasportare da Sisto V con ingegnose macchine e salde armature. In questa Cappella, ove Sisto V volle la propria tomba, riposa anche il corpo di S. PioV, suo grande protettore.

67 Mons. Fabio Biondi, montaltese, († 6 dicembre 1618), nominato Patriarca di Gerusa­lemme da Sisto V nel Concistoro dell’8 gennaio 1588.

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