Martedì, 16 Aprile 2024

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ALLE ACQUE FELICI CONDOTTE IN ROMA DA S. S. SISTO V.

foto di g.vagnarelliTanto più di tua grazia a me comparti,
Quanto ho men di valore e di possanza.

Te, Sisto, io canto, e te chiamo io cantando,
Non Musa, o Febo, alle mie nove rime.

 

     Siamo nella primavera del 1588. Tasso è libero da quasi due anni, ma ancora non ha trovato la pace sperata: al contrario, ha lasciato Mantova e ha vagabondato come al solito per l’Italia, per poi fermarsi a Roma, nel palazzo dell’amico Scipione Gonzaga. Infine, il poeta è riuscito a ottenere una specie di passaporto per tornare a Napoli: ci era già stato nel 1577, quando era fuggito da Ferrara, ma allora aveva viaggiato in incognito, travestito da pastore, perché il bando con cui lui e suo padre Bernardo erano stati espulsi dal regno di Napoli non era mai stato revocato. Ora, invece, Tasso può finalmente rivedere con agio i luoghi in cui è cresciuto, e si commuove alla vista del mare e del cielo di Napoli. La lettera è indirizzata nientemeno che a papa Sisto V, che Tasso avrebbe incontrato l’anno successivo, nel 1589, una volta tornato a Roma (e al quale, come si augura in queste righe, avrebbe baciato i piedi). La prosa di Tasso è fluida, elegante, ma il tono della lettera è malinconico; si tratta infatti, ancora una volta, di una richiesta di aiuto e di protezione. Continua a leggere >>

 

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