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Ascoli nel Cinquecento - Sisto V e la repressione del banditismo*

Si è parlato, a varie riprese, delle lotte intestine, dei fuorusciti e del banditismo, che imperversarono nel nostro territorio in tutto il sec. XVI.

Giunti ora a Sisto V, che più e meglio degli altri pontefici si adoperò a cauterizzare nello Stato della Chiesa questa piaga purulenta, comune del resto a tutta la Penisola, anzi, all'Europa intera, sarà il caso d'indagare le cause che promossero, favorirono e incrementarono questo doloroso fenomeno sociale.

E' stato scritto che l'origine del banditismo in Italia, deve ricercarsi nella cessazione delle compagnie di ventura: molti soldati usi alla prepotenza e al saccheggio e male adattandosi a procacciarsi la vita con l'onesto lavoro, si buttarono alla macchia e divennero fuorilegge.(1)

Se ciò può ritenersi valido per alcune regioni, non riesce a spiegare il lamentato fenomeno per le nostre Marche, le quali furono sovente — è vero — nido di condottieri di ventura, ma quando il banditismo divenne qui diffuso e rigoglioso come alcune vegetazioni mortifere delle zone tropicali, le compagnie di ventura non erano che un lontano ricordo storico. Forse un veneziano, Giovanni Corraro si è accostato più degli altri alla verità, quando in una relazione del 1581 affermò che il banditismo nello Stato della Chiesa derivava dal fatto che ivi gli uomini nascono, si potrebbe dire, con le armi in pugno, i partiti sorgono e crescono spontanei come i funghi primaverili nei boschi e i governanti sono inclini più alla mitezza che alla severità.(2)

La spiegazione del Corraro, almeno per la nostra Ascoli, mi sembra ben data. Qui l'amore per le armi fu sempre vivissimo e le fazioni, sopratutto fra le famiglie nobili, dal XIV al XVI secolo non ebbero un solo attimo di sosta.(3)Dopo qualche conflitto, i colpevoli e i loro fautori e aderenti, per non incappare nelle mani del bargello e degli sbirri, si davano al bando e, una volta divenuti fuorilegge, precipitavano nei soprusi più gravi per necessità di vita, per sfogo di passione, per rappresaglia, aumentando via via la dose di passività con la giustizia. Dai paesi vicini o lontani accorrevano altri avventurieri, che avevano conti vecchi o nuovi da regolare col bargello e cresceva nella banda il numero, nei banditi l'audacia e la loro fama si diffondeva ovunque.

Il volgo poi, sempre facile a commuoversi davanti alle imprese guerresche e disposto a subire il fascino dell'uomo audace anche se vizioso, «riteneva a memoria le gesta di quei capobanda, ed i poeti ciclici le mettevano in versi e le cantavano nei trivi destando forse negli uditori desideri di imitarle».(4)Tanto più che i banditi, nell'opinione pubblica, non erano ritenuti infami; e questo giudizio trova conferma dal fatto che spesso erano protetti da feudatari e signori e che non raramente le autorità stesse venivano a patteggiamenti con essi.(5)Tutto ciò, è naturale, invogliava non pochi avventurieri a seguirli, e se qualcuno, caduto nelle mani della giustizia, finiva col laccio alla gola, altri — come le teste dell'Idra che, troncate, rinascevano più terribili — prendevano il suo posto ereditandone l'ardire.

Le popolazioni pacifiche ritenevano i banditi come uno di quei flagelli — la guerra, la peste, la carestia, ecc. — fatali ed inevitabili, subendo passivamente i soprusi d'ogni genere per timore di peggio. I governanti poi non s'impegnavano a fondo nel combatterli, o per mancanza di uomini, di mezzi e di animo, o perché anch'essi avevano militato in quelle file, dove forse contavano ancora amici e congiunti.(6)

Questa l'origine, la fisionomia e lo sviluppo del banditismo nelle nostre contrade, che potrebbe chiamarsi romantico, perché nato per esuberanza di passione di parte, capeggiato quasi sempre da nobili, con una punta anche di generosità e di cavalleria:(7)quel banditismo insomma passionale ed energico, spontaneo anche nel vizio e persino nel delitto, che piaceva allo Stendhal, perché vi vedeva i segni d'una straordinaria vitalità della razza.

Ma sullo scorcio del sec. XVI le cose cambiarono. Molti contadini, sopratutto di montagna, sia per le periodiche carestie che per l'inutilità del lavoro dei campi continuamente devastati dai banditi e dai soldati che li combattevano, preferirono lasciare le case e darsi alla rapina e alla violenza assai più redditizie; altri, artigiani o braccianti, che per sfogo di vendetta, gelosia di donne o risse nel giuoco e nelle osterie si erano compromessi, si gettarono anch'essi al vagabondaggio armato. E siccome «abyssus abyssum invocatat, non stentarono molto a ritrovarsi, a costituire bande più o meno armate e numerose, il cui unico scopo era quello di far prepotenze e razzie, cosicché il banditismo, degenerato nel brigantaggio, divenne il rigurgito di tutti i facinorosi, la fogna dove finivano per precipitare tutti i torrentacci e le acque limacciose.

Si ebbero così in Italia l'Uomo Selvatico Marianaccio, che si diceva antropofago, Giovanni Valente re degli assassini e, nella nostra regione, i numerosi arditi e spietati masnadieri di Montecalvo e Valle Castellana, alcuni dei quali raggiunsero una vasta e trista notorietà.

* * *

Questo bisognava dire a scusa, se non a giustificazione, della nostra città, che — come vedremo — fu malmenata dal severo e frettoloso Sisto V, il quale voleva che la situazione di punto in bianco si capovolgesse, mentre è notorio che un fenomeno sociale, deprecabile quanto si voglia ma annoso e ben radicato, non può sopprimersi tra oggi e domani. E il banditismo ascolano aveva appunto una tradizione lunga e tenace che risaliva, per una serie ininterrotta di generazioni, fino al secolo XIV.

Per dare l'ultimo tocco al quadro già tracciato nei capitoli precedenti, è necessario riprendere la trafila dei fatti di sangue dal punto dove fu sospesa, fino all'avvento del grande pontefice.

Dopo l'uccisione del governatore Sisto Bezio e la congiura che tendeva a sopprimere anche Fabio Mirti, suo successore, sembrava che i nostri uomini fossero invasati da un'avversione violenta e cieca contro tutte le autorità. Delle quali qui non si vuol prendere la difesa perché, anche se preposte all'alto ufficio del governo di una città, erano espressione e frutto dei tempi che correvano, e il Vangelo ammonisce che «non potest... arbor mala bonos fructus facere».(8)Ma da ciò a dire che tutti fossero del medesimo stampo, ci corre.

I nostri, invece, non facevano distinzione né remissione alcuna. Nel 1569, un memorandum, inviato al pontefice Pio V cominciava così: «Li Governatori d'Ascoli da alcuni anni in qua attendono più presto all'util lor proprio che alla via del governo». Dato il proemio, è facile intuire il resto. Sul conto poi di mons. Della Nave, governatore in carica, ne avevano un sacco e una sporta da dire, ma si limitavano a darne un piccolo saggio, come chi coglie «un mazo di fiori in un prato pieno». Quasi sempre malato, egli si faceva rappresentare dal suo uditore, giovane e per giunta inesperto, cosicché, per ingordigia sopratutto di danaro, ne avvenivano di tutti i colori. Basti il seguente fatto. Siccome chi catturava o uccideva un bandito aveva, secondo la legge, il diritto di liberarne un altro (il che importava un grosso guadagno, perché il bandito che veniva riabilitato pagava il riscatto a suon di fiorini o di scudi), il bargello e gli sbirri, quando riuscivano ad acciuffarne qualcuno, si mettevano d'accordo con un compare, cui affibiare il merito della cattura o uccisione per poter fruire anch'essi del beneficio della legge. Così l'accusa,(9)della quale s'ignora il fondamento. Comunque, mons. Della Nave alla fine del 1569 veniva estromesso dal governo di Ascoli, che era assunto da Costantino Arrigoni di Rimini.(10)

 In questo tempo i fuorusciti — dopo l'immane tragedia durata sei anni e conclusasi, tramite il duca di Bracciano, nel 1567 — erano ridotti di numero, ma non risulta affatto che fossero scomparsi. Nell'agosto infatti del 1573 nel Consiglio fu riferito che il card. di S. Sisto aveva inviato alcune lettere a favore di persone accusate di essersi in­trattenute, senza loro colpa, con banditi. Segno quindi che questa te­nace gramigna era tutt’altro che estinta. Nel medesimo anno, i canoni­ci si lamentavano col visitatore apostolico Maremonti di doversi re­care al Duomo per la recita del Mattutino un’ora e mezza prima che sorgesse il sole con pericolo — come era avvenuto a qualcuno di essi per il passato — della vita, date le particolari inimicizie e le fazioni esistenti in città. Sempre nel 1573 alcuni nobili s’interposero per com­porre il dissidio tra Gio. Maria Sgariglia da una parte e Pirro e Curzio Saladini dall’altra, cui era stato ucciso il loro padre Nozzo. (11)

 Tre anni dopo Luzio Odoardi — altro brutto ceffo — (12) e il fi­glio del barone di Tossicia ammazzavano con alcune archibugiate, tira­tegli alla finestra dirimpetto, Pietrangelo Falconieri. Due giorni pri­ma, scrive inorridito un cronista contemporaneo, Luzio «haveva ma­gnato con luiet trà loro non c’era stato cosa alcuna». (13) A causa di questo delitto, le acque cominciarono di nuovo a intorbidarsi e il lega­to della Marca, per ordine del papa, si trasferì senz’altro in Ascoli con truppe. (14)

 Seguì qualche battuta d’arresto. (15) Poi nel 1579, e precisamente il 10 di maggio, mentre si celebravano le nozze — col solenne fasto in uso in quei tempi presso le famiglie patrizie — tra Astolfo, nipote di Giovanni Antonio Guiderocchi, e Lucrezia sorella del cap. Orazio Alvitreti, veniva ucciso con alcuni colpi di archibugio Prisciano Massei, mentre era in procinto di varcare la porta della casa dove si stava banchettando. Asdrubale Falconieri, autore del delitto e forse figlio o parente di Pietrangelo, fuggì sul colle S. Marco asserragliandosi in un «casareno» con i suoi; ma assediato dal cap. Alvitreti, da Mariano e Metello Massei e dal truce Luzio Odoardi, dopo disperata difesa per tutta la notte fu costretto al mattino di uscir fuori, essendo stato dato fuoco al «casareno». Venne, con i suoi, passato per le armi e otto teste furono portate in città. Alla scaramuccia presero parte oltre cento uomini, compresi il bargello, gli sbirri e la famiglia Ciucci(16) Luzio Odoardi poco dopo finiva sul patibolo a Ravenna. (17) 

Gli uomini erano in quegli anni talmente facinorosi e caldi di sangue che non sentivano e rispettavano nemmeno i vincoli della parentela. Ottaviano Alvitreti — consanguineo della moglie di Astolfo Guiderocchi — tirava a costui una archibugiata, che forse andò a vuoto. Il 19 ottobre 1580 i due si rappattumavano e anche questa facilità di perdono è un elemento da non trascurare per la valutazione degli uomini di quell'epoca.(18)Aveva contribuito sicuramente a questa ed altre paci, la venuta in Ascoli del card. Sforza, eletto da Gregorio XIII legato dello Stato Pontificio ad eccezione di Bologna, il quale giunse verso la metà di ottobre, ricevuto con calorose manifestazioni di omaggio che non lo commossero, perché emanò severissimi decreti contro le discordie e il banditismo.(19)Egli aveva ricevuto così ampi poteri per l'estirpazione del brigantaggio che fu detto non già legato generale, ma vice-papa. Non durò però a lungo, perché sei mesi dopo soccombeva, presumibilmente di veleno.(20) 

Ma troppi erano i rancori tra le famiglie patrizie, e la vendetta veniva considerata dai più come un solenne e — direi quasi — sacro impegno d'onore. Il 24 giugno 1582, sulla mezzanotte, Gio. Antonio Guiderocchi, sentendosi morire per grave ferita riportata, chiamava il notaio per dettargli le sue ultime volontà.(21)Poco dopo esalava l'estremo respiro e il nipote Guido chiese al card, di S. Sisto il permesso — che gli venne accordato — d'imporre una taglia di 1000 scudi sul capo di Giovanni Paolo Ilari e di altri 500 su Marcello di Mattia Rosaro, autori materiali del delitto. Il quale sicuramente si riallacciava per segrete vie e misteriose propaggini ai fatti di sangue che erano avvenuti, tre anni prima, durante e dopo il matrimonio di Astolfo Guiderocchi.(22)

Nel giugno del 1583 il vescovo di Camerino si portava, per ordine del papa, in Ascoli per placare alcuni dissensi sorti fra cittadini.(23)Nell'anno seguente, per questo o per altri motivi, la pace non era ancora tornata perché il quaresimalista P. Pietro Trigoso si fece intermediario — come si è visto — per la concordia degli animi e si parlò d'inviarlo a Roma.(24)Sullo scorcio del 1585 infine successe un finimondo per colpa di una fragrante e innocentissima... ricotta, la quale cagionò un morto, una mezza rivoluzione ed altri infiniti guai.(25)A un mese appena dall'elezione di Sisto V, che avrebbe ripristinato in pieno l'ordine nel suo Stato e il rispetto della legge, terminava così' — in forma quasi comica — l'interminabile serie dei fatti di sangue che avevano funestato per tutto il secolo XVI la nostra Ascoli, rendendola tristemente famosa.

Non c‘è quindi da meravigliarsi che negli incartamenti della Compagnia di Gesù essa fosse invariabilmente definita — durante i replicati tentativi d'istituirvi un collegio — città grande ma sediziosa(26); e che Torquato Tasso nella Gerusalemme Liberata abbia fatto nascere proprio «in riva del Tronto» il personaggio più turbolento del suo poema, Argillano, il guerriero dal «feroce sguardo», da «la fronte intrepida e sublime», che si era nutrito «nelle risse civil d'odio e di sdegno», temprando in queste lotte il carattere impetuoso e acciaiato. Un contemporaneo e amico del poeta, Scipione Gentili, spiegava questa preferenza come un fatto normale, essendo Ascoli «sopra tutte le altre città d'Italia, per le civili sedizioni... chiara in ogni tempo».(27) E il Tasso aveva perfetta conoscenza di questo stato di cose, avendo dimorato spesso nella Marca d'Ancona, e precisamente a Pesaro, Castel Durante (oggi Urbania) e Urbino, alla corte del duca, dove ebbe modo di conoscere — come si vedrà nel II vol. — Aurelia Guiderocchi, figlia di Astolfo.

Nel febbraio 1855 venne scoperto nel palazzo del Popolo un affresco, che rappresentava Ascoli, raffigurata sotto l'aspetto di matrona, assisa su un seggiolone entro una nicchia. Era lavoro eseguito nel 1484, dopo l'ottenuta Libertà Ecclesiastica, come si leggeva nella didascalia in parte corrosa dal tempo. Si era invece ben conservata la seguente esortazione, che la città rivolgeva in rima ai suoi figli, trascritta fedelmente dal can. Frascarelli:

Odi la parte et locchio a la ragione
deriza. E se me voli in libertate 
mantienti in caritate et unione.(28)

 Parole — ahimè! — ripetute tante volte, e sempre invano, da papi, cardinali, governatori, predicatori e santi. In tutti i secoli, ma specie nel Cinquecento, la fazione prevalse sulla ragione e l'amore — a dispetto delle promesse — divenne merce estremamente rara o addirittura introvabile, sì da suscitare spontaneo il ricordo impertinente dell'araba fenice del buon Metastasio.

* * *

E' noto l'episodio dei quattro giovani di Cori che, essendosi recati a Roma per l'incoronazione di Sisto V (1° maggio 1585), furono sorpresi, mentre tornavano a casa, dagli sbirri e tradotti in prigione perché armati di archibugi a ruota, di cui il pontefice, appena eletto, aveva ribadito la proibizione già fatta da Gregorio XIII. Non valsero implorazioni di principi, cardinali, ambasciatori per risparmiare la vita ai quattro giovani. Essi, condannati a morte, furono visti penzolare il mattino seguente sulle forche di ponte S. Angelo.(29)La notizia, giunta nella nostra città, dovette far colpo; ma i più s'illusero che il papa, pur nella sua severità, avrebbe usato un trattamento di favore e un occhio d'indulgente riguardo verso i suoi concittadini.

Intanto, poco dopo l'elezione del papa, i banditi riprendevano con spavalda baldanza la loro attività, sia a Montalto — come si è accennato nel capitolo precedente — che nei dintorni di Ascoli. Il 2 luglio 1585, essendo ancora a Roma due degli ambasciatori inviati dalla città per congratularsi con Sisto, fu scritto loro d'informare il papa della grave e preoccupante situazione, supplicandolo di porvi rimedio. (30) Non si conosce se essi abbiano avuto tempo e modo di espletare il loro mandato; se sì, papa Sisto dovette ridere saporitamente sotto i baffi, come il cacciatore che vede l'incauto uccello mettersi a tiro del suo fucile. Infatti, appunto in quei giorni, aveva dato gli ultimi tocchi alla sua tremenda bolla contro i banditi che pubblicò — facendola firmare anche da tutti i cardinali, il 5 luglio, nella quale proprio le comunità erano direttamente impegnate nella lotta e dichiarate responsabili dell'inadempienza delle disposizioni ivi contenute. La bolla era una vera dichiarazione di guerra e di sterminio. Non appena comparissero ladri o banditi, bisognava suonare a stormo le campane (31) e dare loro addosso, mentre le ville vicine dovevano prestare man forte. Le comunità che si dimostravano inette o deboli erano colpite coll'ammenda di 2.000 ducati e col risarcimento dei danni fatti dai fuorilegge; chi questi avesse favorito, dando aiuto o rifugio, o impedendone in qualsiasi modo l'arresto, incontrava — fosse pure suo intimo congiunto — la perdita di tutti i beni e la morte. (32)

Nella nostra citta la bolla «contra gli homicidi, ladroni, banniti e loro complici, fautori et ricettatori» fu letta nella seduta del Consiglio dei Cento del 18 luglio 1585. Tre giorni dopo fu letta e volgarizzata agli uomini del Consiglio Generale. (33) Però non se ne comprese lo spirito nuovo e fu considerata alla stregua degli altri documenti pontifici, che l'avevano preceduta. (34) Nemmeno i banditi si allarmarono troppo. Prova ne sia il seguente episodio.  

Il 18 agosto a Patrignone era indetto il Consiglio. Improvvisamente comparvero alcuni ascolani — sette come i vizi capitali — armati li tutto punto, che con le loro prepotenze per poco non facevano scatenare un conflitto. Respinti e inseguiti, ne furono catturati cinque, mentre gli altri due, che erano veri e propri banditi, «saltando da un luogo pericolosissimo di romperse il collo, se ne camporno». Ora i prigionieri, dal carcere, seguitavano a fare i gradassi, urlando e sbraitando che avrebbero ucciso o fatto uccidere "quanti se ne fusse trovati di questa terra». I massari di Patrignone, un po' impressionati, il giorno seguente scrivevano ai nostri Anziani narrando i fatti, e pregando di far rilasciare ai congiunti dei catturati la sicurtà di non offendere, ché altrettanto avrebbero fatto essi. (35)

 Questo, a oltre un mese dalla proclamazione della bolla, avveniva nel nostro territorio (36), quando a Roma e in molte altre parti il boia lavorava sodo a stringer cappi al collo, a tagliar teste, a squartare, tanto che il 10 agosto si poteva proclamare la scomparsa quasi integrale del banditismo nei dintorni dell'Urbe e un mese dopo un «Avviso» comunicava che in quell'estate si erano viste più teste di banditi a ponte S. Angelo che meloni al mercato. E il papa voleva che i giustiziati restassero esposti — a monito e ludibrio — per vari giorni; ai conservatori che lo avevano pregato di risparmiare alla città lo spettacolo e il puzzo di tanti cadaveri, rispose: «Siete di naso ben delicato. Se a voi puzzano i morti, a me puzzano i malvagi vivi : e specie i più grandi. Se vi fa male quest'aria, cercatene di migliore». (37)

Da noi si doveva ancora cominciare e la situazione peggiorava sempre più. Il 10 settembre fu discusso nel Consiglio il modo di tenere a bada i banditi "qui in proximis locis versari dicuntur». (38) Essi eranotalmente sfrontati, da non risparmiare nessuno. Credo che sia proprio di questi giorni l'episodio di cui fu vittima il nostro vescovo Nicolò Aragona, che mentre era in viaggio per la diocesi fu fermato da nobili fuorusciti e spogliato di alcune gemme e dell'orologio. Non contenti di ciò, cominciarono a vantarsi d'avere acquistato dal vescovo tali oggetti, cosicché l'Aragona veniva ad essere coinvolto nelle sanzioni della bolla di Sisto V, quasi avesse tenuto commercio con i banditi. Scrisse perciò immediatamente al pontefice, il quale non solo lo scagionò dall'accusa, ma riconfermò con belle parole la sua stima verso di lui.(39) Anche in considerazione, forse, del fatto avvenuto, nel Consiglio del 10 settembre si ragionò a lungo del modo di difendersi da questa masnada di disperati. Presero la parola vari cittadini, chi proponendo una soluzione, chi un'altra. Qualcuno ricadde nel solito luogo comune di scrivere a Sisto per aiuto, ma un consigliere tra i più accorti fece osservare che ciò avrebbe suscitato nel pontefice " di noi qualche disgusto". Del resto non vi fu bisogno di scrivere: il papa venne egualmente a conoscenza della critica situazione di Ascoli e mandò per espresso una buona strigliata ai nostri Anziani.(40)

Essi protestarono che la città aveva fatto del suo meglio per tenere a bada i fuorusciti, ma Sisto tagliò corto e spedì immediatamente come governatore di Ascoli un uomo del suo stampo e di sua piena fiducia, il milanese Marsilio Landriano. Appena giunto, costui propose che si eleggessero per la città quattro capitani con 50 uomini ciascuno a servizio della giustizia e altri cinque, con un congruo numero di soldati, per difendere il territorio circostante. Ordinò poi che coloro che abitavano in aperta campagna non potessero conservare sul posto viveri superiori al fabbisogno di una giornata e a sera erano tenuti a ritirarsi entro il paese, se ne erano distanti meno di un miglio: in caso diverso, dovevano ridursi nelle palombaie e ivi fortificarsi.(41)In secondo luogo tolse al vescovo e ai canonici il governo di Ancarano e Maltignano che, per essere luoghi di confine con l'Abruzzo, brulicavano di banditi.(42)

Il 2 novembre, essendo giunto un nuovo editto di Sisto, nel quale dichiarava responsabili le città di tener libero da sicari, facinorosi e banditi, sotto minaccia di gravissime pene, il territorio dipendente, fu discusso nel Consiglio come ottemperare a questa costituzione, anche perché il governatore "non sine nostro gravi damno et moerore" aveva dichiarato di lavarsene le mani, addossando sugli Anziani e sugli altri magistrati cittadini tutto il peso dell’osservanza dell’editto. (43) Il giorno seguente, riunitosi nuovamente il Coniglio, Giacomo Palucci spiegò che la determinazione del governatore era dovuta a ordini precisi del pontefice; tuttavia non avrebbe egli mancato «di aiutare e favorire la città e luoghi d'essa». Fu discusso se fosse il caso di assoldare un paio di bargelli con 100 sbirri, ma la proposta fu letteralmente subissata da urla e improperi. Non volevano neppure sentir nominare certa gente. l'avversione in parte era motivata dalla fama infame che godevano questi uomini d’arme, peggiori spesso degli stessi banditi; (44) ma sopratutto dal fatto che essi avrebbero condotto la guerra sul serio, senza guardare in faccia a nessuno, mentre i nostri intendevano farla — al solito — in forma più o meno addomesticata, distinguendo caso da caso, perché tra i fuorusciti se ne contavano molti legati da vincoli di sangue e di amicizia con i magistrati cittadini o almeno con alcuni dei membri del Consiglio.

Fu concluso col deliberare un corpo di milizia cittadina — come aveva per l'innanzi ordinato il governatore — sotto il comando di 4 capitani, che furono Antenore Mucciarelli, Gio. Antonio Massei, Pietro Angelo Miliani e Vincenzo Valomei. Nello stesso tempo si credette di mettere le mani avanti, informando il pontefice che la lotta contro il banditismo di «questa sua fedelissima città» era ardua, sia «per le nimicitie civili che sono in essa», sia per la scabrosità del terreno in maggior parte montagnoso, sia infine per la vicinanza dei confini col regno di Napoli, dove i banditi, con un salto, potevano trovar rifugio.(45) A quest’ultima difficoltà veramente era stato già ovviato per accordi intercorsi tra Sisto e gli Stati viciniori, per cui le truppe pontificie potevano oltrepassare i confini per inseguire i banditi, e viceversa (46).

Dum haec Asculi geruntur, i banditi scorazzavano spavaldamente, per tutto il territorio, senza che nessuno si facesse vivo per combatterli. Cosicché il Landriano denunziò senz’altro la città d’inosservanza della bolla di Sisto V, la quale accusa, importava ammenda di ben 2.000 ducati. La notizia, riferita nel Consiglio del 6 novembre, produsse penosa impressione: parlarono 4 - 5 oratori e fu deciso di preparare la difesa e d’inviare una lettera al papa, pel tramite dell’ascolano Gio. Battista Acquaviva, che era da lui conosciuto e stimato. (47)

La lezione — a parte la sorpresa e il dolore — produsse l’effetto che si riprometteva il governatore, quello cioè di scuotere i nostri magistrati dal torpore secolare e di guarirli, una volta per sempre, dal di­lettantismo in cui si erano fino allora gingillati. Nei giorni successivi infatti nominarono otto commissari per l’osservanza della bolla, i quali subito impartirono ordini a tutti gli ufficiali e podestà del contado di risiedere sul posto, di fare eseguire la guardia notte e giorno «alli pas­si e luoghi sospetti» e di affrontare i banditi al primo loro apparire, dopo aver dato l’allarme «con voci e campane». In città, i 200 uomini ingaggiati per la lotta dovevano correre nella casa dei rispettivi capi­tani, completamente armati, al primo accenno della campana grande del palazzo del Popolo, che avrebbe suonato «a tre tocchi per volta». Fu spedito infine un commissario per vigilare su Rosara, Talvacchia, Colonna, Colloto, Lisciano di Colloto e Cervara che allora, come oggi, facevano parte del comune di Ascoli. E quando l’8 novembre, tre dei quattro capitani — che erano tutti assai giovani — fecero conoscere che intendevano avere le insegne militari e la paga corrispondente al loro grado, dopo averli inutilmente pregati di accettare la carica così come era stata loro concessa trattandosi di servire la città in un momen­to tanto critico, furono esonerati senz’altro dall’ufficio, che venne as­sunto da otto uomini più maturi d’età e meno ligi a fronzoli e ridicoli formalismi. (48)

Intanto, per la difesa della città dall’accusa d’inadempienza alla bolla, vennero inviati al pontefice gli ambasciatori Gio. Francesco Mucciarelli e Vincenzo Giovenale, i quali dopo un po’ d’incertezza se mandarli, essendo corsa la voce che papa Sisto era irritato contro la nostra città — partirono sugli ultimi di dicembre. (49)

Poco prima di Natale il papa inviava nella Marca Anconetana con l’ufficio di commissario generale Giovanni Martinez di Monte Albano (Piacenza), accordandogli ampie facoltà. A Montalto, quale governa­tore del Presidato Farfense, aveva già spedito mons. Giulio Schiafenati, compatriota e fratello siamese — per l’implacabile severità — del no­stro Landriano, che già si era messo con grande impegno a perseguitare i banditi e il 23 dicembre richiese 60 uomini di rinforzo alla nostra co­munità. (50) Insomma si cominciava a fare sul serio e i banditi ben pre­sto si avvidero che le cose stavano prendendo una cattiva piega per essi e che con Sisto non si scherzava.

Col gennaio del 1586cominciò un freddo siberiano: nevi e ghiac­cio, ghiaccio e nevi, senza tregua. E senza tregua si continuò la lotta contro i banditi, a dispetto di queste condizioni atmosferiche proibi­tive. Il 16 detto il governatore minacciò di procedere nuovamente con­tro la città perché a Cerqueto, paese posto alle falde della Montagna dei Fiori, era avvenuta una concentrazione di molti fuorilegge e nessuno, sia di Ascoli che del suo territorio, si era mosso per combatterli. Vennero subito allestiti 100 uomini con due capitani, che furono Vin­cenzo Sgariglia e Gio. Vincenzo Saladini. (51)

La lotta, ingaggiata seriamente, dette ben presto i primi frutti. Il 17 marzo nel Consiglio si deliberava di scrivere al Card. Montalto, ni­pote di Sisto V. per comunicargli l'inseguimento entro il territorio del Regno di un gruppo di banditi e la cattura di alcuni di essi; qualche giorno dopo si parlò di altri due fuorilegge presi e ai primi di aprile dell’uccisione di Piccione «atiquissimo e famosissimo bandito» e del cognato, caduti nella rete tesa loro da mons. Landriano, con l’aiuto della città che aveva trovato e rimunerato le spie. (52) Chi veniva sorpreso con le armi in pugno era come se avesse in tasca la sentenza di morte: il governatore — scrive il Marcucci — «fe’ carcerar da ottanta tra fuorusciti e banditi, e dentro poche settimane senza perdonarla a veruno fe’ giuocar sopra loro le mani e i piedi del carnefice con gran terrore di tutte queste contrade». (53)

Anche il suo luogotenente Gherardo Tazio non scherzava e il 16 aprile — non si sa per quale motivazione — accusava la città d'inosservanza alla boll i di Sisto contro i banditi: era questa, in meno di sei mesi, la terza denunzia. Nel Consiglio, al solito, si protestò, si disse di voler ricorrere al papa e forse questa volta non avevano tutti i torti, perché si erano messi a fare le cose veramente sul serio. Proprio in quei giorni stavano dando man forte a mons. Schiafenati che aveva rincorso i banditi oltre i confini del Regno e i nostri si erano posti di guardia nei paesi di frontiera per acciuffarne qualcuno rimasto fuori della maglia. Intanto provvidero subito a spedire un oratore a Roma per parare il colpo del luogotenente: fu scelto il dott. Giacomo Palucci. (54)

Per la sera del 24 aprile, anniversario dell'elezione di Sisto V, fu decretato — ma in tono minore — di fare «allegrezze». Dodici mesi erano stati più che sufficienti per far crollare tante speranze e tante chimeriche illusioni e molti forse rimpiangevano i tempi «men feroci e più leggiadri») di papa Gregorio, in cui non si aveva il terrore di vedersi continuamente alle costole I’ ombra del boia, né di sentirsi vacillare la testa dal busto o stringere al collo la fredda corda insaponala.

Eppure bisognava, inghiottire, senza parere, i bocconi più amari e nascondere sotto la maschera del sorriso i risentimenti e le amarezze, che aumentavano ogni giorno più.

 Il 19 giugno, essendo giunto in Ascoli il conte Fabio Landriano, fratello del governatore, fu deliberato che gli Anziani si recassero premurosamente ad ossequiarlo e il 22 fu convitato a pranzo insieme alla moglie, al castellano della fortezza Pia, al fratello del vescovo Gio. Battista Aragona e moglie, alla contessa Aurelia Guiderocchi e al luogotenente Gherardo Tazio.  A sera vi fu un ricevimento di tutte le signore della nobiltà ascolana, le quali si trattennero anche alla rappresentazione di un’ egloga nel teatro cittadino, che allora era nel palazzo dell’ Arringo. La favola pastorale - nel quadro della feroce lotta che si era ingaggiala contro il banditismo - non sembri un’ ironia o una parodia, perché è proprio della natura umana sentire il bisogno di motivi semplici e agresti dopo lunghe e spaventose scene d'impiccagioni, decapitazioni, squartamenti e altre cose da Grand Guignol o da romanzo giallo, per dirla alla moderna. Dispiace che dell'egloga non vien dato né il titolo né l'autore. (55)

 Il 29, festività di S. Pietro, altro banchetto in onore di mons. Schiafenati, giunto in Ascoli dopo l’aspra lotta contro i banditi di Montalto, di cui aveva fatto strage. (56) Nonostante che con dette manifestazioni si cercasse d'ingraziarsi questi personaggi e, per riflesso il papa, il 7 luglio giungeva l'ordine di pagare la penalità per l'inosservanza della bolla contro il banditismo: solo che la somma veniva ridotta della metà. (57) Naturalmente bisognò striderci, direbbe il Giusti.

Per fortuna si era all’epilogo della campagna contro i banditi, i quali erano stati tutt'altro che sterminati, ma avevano dovuto ridurre quasi al completo la loro attività in attesa — per rifarsi — di tempi migliori. Forse appunto in considerazione di ciò, essendo stato suonato alle armi nella notte del 28 settembre proprio «sul primo sonno», quasi nessuno si era alzato per accorrere nei propri ranghi. Il governatore nel Consiglio fece il diavolo a quattro. Fu cercato di rabbonirlo e in parte si riuscì. Furono le sue ultime escandescenze. (58)

In seguito il Landriano, sull'esempio di Sisto V che aveva fatto coniare una medaglia a ricordo della lotta e della vittoria contro il banditismo — rappresentava un viandante adagiato all'ombra di un albero carico di frutti, con le parole: Perfetta securitas(59) volle erigere una porta monumentale, in sostituzione di quella esistente, all'imbocco del ponte Maggiore con opportuna iscrizione che ricordasse l'avvenimento, adattando anche la strada che conduceva alla cattedrale. Avendone fatto cenno nel Consiglio, trovò una rispettosissima ma ferma opposizione da parte di molti cittadini. I quali, in fin dei conti, non avevano tutti i torti. Le finanze erano giunte al massimo dello stremo, perché la lotta contro i banditi aveva ingoiato capitali enormi; si erano inoltre spese somme rilevanti per la multa sull'inosservanza della bolla, per contribuire, secondo l'ordine di Sisto, alla costruzione di una trireme o galeotta, (60) per l’acquisto di grosse partite di grano, data la carestia che serpeggiava da un po' di tempo, (61) per pranzi e regali a personalità, Ora veniva ad aggiungersi, proprio come... il cacio sui maccheroni, la fabbrica della porta. Dove trovare !a somma necessaria?

Il Landriano, naturalmente, non fece caso né delle ragioni addotte. né delle querimonie del Consiglio, (62) impose la sua volontà e la porta fu costruita e inaugurata prima che egli lasciasse il governo di Ascoli. (63) Era tutta in travertino con due colonne d'ordine toscano fasciate a bozze rustiche, sorreggenti l'alto cornicione, su cui campeggiavano ben cinque stemmi. (64) Nell'ampollosa dedica il Landriano ricordava Sisto V, restauratore della pace nello Stato della Chiesa, e anche — modestia a parte — sé stesso, che lo aveva coadiuvato nell'impresa.

La porta restò in piedi per oltre due secoli e mezzo. Poi, all'inizio del 1862, quando da poco era stata domata la fiera insurrezione dei cosidetti «briganti», venne abbattuta per allargare e innalzare il ponte limitrofo, e dispersa. (65) Si salvò solo l'iscrizione, che ora è conservata nell'atrio del palazzo del Popolo. (66)

Così la vittoria contro i banditi del sec. XVI fece innalzare lo storico monumento; quella contro i briganti del sec. XIX — ironia del caso — ne decretò la distruzione.

NOTE UNITE

(1) E. RICOTTI, Storia delle Comp. di ventura in Italia,Torino, 1893, II, pp. 347-48, e L. GROTTANELLI, Alfonso Piccinini, Firenze, 1892, p. 3.

(2) PASTOR, IX, 783-784. Per quel che riguarda Ascoli, cfr. le lettere scritte nel 1554 dal legato della Marca al nostro governatore Sisto Bezio (BustaIX, Fase.II), in cui si accenna a un certo don Fiore che in un primo tempo si par­lava di condannare «à una gabbia o à una galera» e poi fu assolto dietro versa­mento di 500 scudi (23 aprile e 19 maggio) al pari di Ascanio Falconieri, che per i suoi misfatti doveva finire sul patibolo (21 febbr.). Non era infrequente poi che i fuorusciti tornassero abusivamente in Ascoli, come Federico Ciucci, o si permettessero di passeggiare per Roma, come Anton Francesco Malaspina (18 aprile e 18 agosto).

(3) Per il sec. XV, cfr. Ascoli nel Quattrocento, I, 84-99.

(4) RICOTTI, op. cit.,II, 331, e DE HUBNER, Sisto V, cit., I, 216-19.

(5) Nonostante i 370 omicidi che pesavano sulla sua coscienza e da lui stes­so confessati, Gregorio XIII nel 1580 venne a patti e perdonò al famoso bandito Alfonso Piccolomini, duca di Montemarciano. Cfr. GROTTANELLI, op. cit., 66-67, PASTOR, IX, 779, e G. GOZZADINI, Giovanni Pepoli e SistoV, Bologna, 1879, p. 16. Il prete Guercino, che s’intitolava re delle province di Campagna aveva sospeso il vescovo di Anagni dall’ufficio e ingiunto al clero di riconoscere lui per vescovo e re. Eppure fu perdonato con l’assoluzione da 44 omicidi. Ven­ne poi giustiziato da Sisto V (DE HÜBNER, I, 215). Erano così frequenti le cau­se contro i banditi, che si stamparono opere voluminose da parte di giuriconsulti per trattare per lungo e per largo la questione : importantissimo è il Tracta­tus Bannitorum del bolognese IPPOLITO MARSILI, Bologna, 1574.

(6) Mons. Giulio Amici di Jesi, governatore della nostra città nel 1590 (cfr. Registrum C,c. 83 v), aveva un fratello, Alessandro, che fu bandito famoso (F. DAL MONTE CASONI, Un cartello di sfida, Ascoli, 1932, pp. 66-67). In quel me­desimo anno, per essere stati esclusi dagli uffici e dignità pubbliche gli omicidi, il governo di Ascoli era passato nelle mani «di persone basse», perché tutti i no­bili, più o meno, avevano le mani macchiate di sangue (Registrum C,cc. 84 e 84 v).

(7) Basterà ricordare il cap. Parisani e perché si ritirò dalla lotta (v. pp. 298-99).

(8) Matteo, VII, 18.

(9) Busta IX, Fasc. III.

(10) Registrum B, cc. 206 e 213v.

(11) Riforn., 13 agosto 1573, c. 516 v; Visit. Marernonti, cc. 94 v e 95 v; Fasc. X. N. 4. Alla fine di questo med. anno avveniva una violenta rissa tra i due Anziani Giovanni Innamorati e Alfonso Mucciarelli, indice eloquentissimo di quei torbidi tempi (Riform.,18, 19, 21 e 27 dic., cc. 534, 534 v, 537 v e 538 v).

(12) Era figlio dì Costantino, già chierico e poi ammogliatosi, e nipote del colonnello Odoardo Odoardi. La famiglia aveva il dominio su Castel di Lama ( Arch. Sgariglia nell’Arch. Stor. Com. di Ascoli, XXI, B.9). Il 26 dic. 1575 fu scelto insieme ad altri, per invitare Don Giovanni d’Austria, che era in viaggio verso la S. Casa di Loreto, di venire in Ascoli (cfr. p. 323). Finanziariamente non doveva navigare in buone acque (cfr. atti di G. B. Malaguzzi, 25 genn. 1574, c. 32). Aveva sposato in prime nozze Maria Santucci dalla quale ebbe un figlio, Bruto, e in seconde nozze la vedova Elisabetta Sgariglia. Quando nel 1571 furono stilati i capitoli matrimoniali con costei, egli era bandito e lontano da Ascoli (atti di R. Pomiponi, 29 nov. 1573, e 13 die. 1583 c. 186). Elisabetta morì il 1° sett. 1596 (Arch. Sgariglia,XXVII, 1, e XXV, 2).

(13) Cronaca Ascolana. n. 20, c. 55; cfr. anche n. 21, c. 37 e n. 22 c. 37 v.  Sulla morte del Falconieri c'è una lettera del card. Montalto in data 5 agosto 1576 (Busta VII,  Fasc.V, N. 3). Costi, come si ricorderà (v. pp. 330-31) aveva ucci­so nel 1567 i capitani Federico Ciucci e Incicchetto Martelli con l’aiuto di altri tra cui Gentile Odoardi ed Ercole Grassi, ai quali il 27 aprile fu concesso dal papa in seguito a loro domanda, di poter dimorare nello Stato della Chiesa, all'infuori di Ascoli; avendo ottenuta la pace dai congiunti degli uccisi ed es­sendo essi avanzati d’età (65 anni) (Arch. Vat., Arm.42, T. 30, c. 107; altra as­soluzione di omicidio concessa a due ascolani trovo nel med. Arm.,T. 31, c. 101).

(14) Cfr. nel Registrum C, cc. 27 e 28, il breve di Gregorio XIII e la lettera del card, di S. Sisto del 12 agosto 1576, in cui gli si ordinava di portarsi in Ascoli con 200 fanti e 25 cavalli. Egli era Filippo Lega, vescovo di Ripatransone, e ai primi di settembre si trovava ancora qui (Ibidem,cc. 25 v e 29). Cfr. anche Ri­form., 2, 5, 8, 15, 16 e 18 agosto, cc. 72 v, 76 v, 78, 78 v e 79. Fu in questa circo­stanza che — come si è detto nel cap. precedente — gli Anziani pregarono instantemente il card. Montalto di venire in Ascoli per rappacificare gli animi.

(15) Episodi di violenza in quei tempi, avvenivano un po’ ovunque. Il 20 giugno 1576 i massari di Montefortino scrivevano per lagnarsi con i nostri An­ziani che nei giorni precedenti gli uomini di Comunanza (.(armati in conventico­la et à sono di tamburro» erano entrati nel loro territorio gridando: (Ammazza, ammazza, Ascoli, Ascoli» (Busta XI, Fasc.III).

(16) Cronaca Ascolana n. 21, c. 38, e n. 22, c. 37 v. Forse anche nell’aprile si erano avuti dei torbidi, perché in detto mese il governatore della Marca chiede­va a Recanati 50 uomini da spedire in Ascoli (LEOPARDI, Annali di Recanati, II, 266). Astolfo Guiderocchi quando sposò doveva essere giovanissimo, essendo nel 1582 maggiore di 14 e minore di 25 anni: la moglie ebbe complessivamente 4400 fiorini di dote (atti di T. Giorgi, 16 nov. 1582, c. 474 v). Egli era figlio del cap. Guido, nel 1584 si trovava bandito (atti di A. Antonelli,c. 148 v) e quattro anni dopo castellano della fortezza di Perugia (atti di C. Sallanti, 23 genn. 1588, c. 55, e di V. Bonamici, 28 genn. 1589, c. 80). Uccidere allora era cosa da niente e rientrava nella normalità, cosicché alcuni nobili, estratti in quel med. anno per esercitare l’ufficio di vicario nei paesi del territorio ascolano, risultarono so­spetti o imputati di omicidio e furono sostituiti (Riform.,28 giugno, 2 e 6 lu­glio 1579).

(17) Scrive L. GROTTANELLI, Alfonso Piccinini, cit., p. 52, che egli era talmente facinoroso, che a Roma si riteneva impossibile tenergli testa. Cosicché «fu convenuto fosse prudente di patteggiare con lui, affidandogli la castellania di Faenza e la condotta di un reggimento di soldati papalini, alla condizione che mai più tornasse in Ascoli: Luzio promise, ma poi tornò all’antico mestiere di bandito, desolando più di prima il paese. Si ricorse allora all’astuzia, il go­verno attese che il cap. Luzio capitasse a Ravenna, e qui dimorando senza so­spetto fu facile arrestarlo e senza indugio fu decapitato». Secondo la Cronaca Ascolana n. 22, c. 38, ciò avvenne il 9 ott. 1579.

(18) Atti di V. Bonamici,19 aprile 1580.

(19) Cfr. Riform., 21 e 28 ott. 1580, cc. 129, 132 e 137; Bull. Deposit., sett. - ott. 1580, c. 59. I decreti parvero troppo gravosi e subito si parlò di spedire oratori al cardinale, perché li avesse moderati (Ibidem,29 e 30 ott., cc. 148 e 151).

(20) PASTOR, IX, 775-77.

(21) Lasciò scritto che voleva essere sepolto nella Cattedrale. La maxlre si chiamava Costanza e la moglie Giovanna. Forse non aveva figli, perché non ne parla mentre cita un nipote, Torquato Guiderocchi. Lasciò molti legati pii a chiese e conventi. Abitava nel quartiere di S. Venanzio. (Atti di A. Antonelli, 24 giugno 1582)..

(22) Cronaca Ascolana n. 22, c. 38 v. La lettera del card. di S. Sisto al govenatore di Ascoli in data 1° agosto 1582, in cui accordava la taglia imposta, è annessa al rog. di A. Antonelli.

(23) Il breve papale del 30 giugno cominciava così: «Non sine gravi animi nostri molestia, nuper accepimus in civitate nostra Asculi, aliquas inter ipsoa tranquillitatem dictae civitatis perturbare posse verisimiliter dubitatur, nisi principiis ipsis obstare curaverimus». Il vescovo giunse in Ascoli il 9 luglio e vi rimase fino al 5 sett., giorno in cui venne il nuovo governatore Mons. Lorenzo Celso (Registrum C.,cc. 43 e 44)..

(24) Vedi p. 156. Nel febbraio di detto anno Giuseppe Sgariglia feriva con un archibugio a mota, che era proibito, Ottaviano Alvitreti. Fatta la pace lo fe­riva nuovamente al femore con un’altra archibugiata e quindi con un pugnale, per cui divenne bandito (Arch. Sgariglia, XXIII, 1).

(25) Cfr. lo spassoso articolo di G. ANGELINI - ROTA, La tragedia di una ricotta, comparso nella pag. regionale de «Il Messaggero», 30 die. 1937. Il fatto, assegnato dalle Cronache Ascolane al 1583, dovette avvenire invece, come pare dedursi da alcuni accenni nelle Riform.del 30 e 31 marzo 1585, cc. 16 v e 17, due anni dopo.

(26) «Civitas satis magna... sed propter seditiones civiles...»; «ciutad gruessa... harto seditiosa» (Monumenta Historica Soc. Iesu, Chronicon, VI, 31, e Epistolae et Instructiones, XI, 159).

(27) La frase è riportata in quasi tutti i commenti della duplice Gerusalem­me, e può dirsi la traduzione di un breve pontificio diretto ai nostri Anziani: «Cum sicut accepimus in Civitate nostra Asculi, quae propter diversas factiones intestinis odiis et civilibus discordiis solita est laborare ab antiquo...». (F. PANTALEONI, Origine et antichità della città d’Ascoli, Roma, 1671, p. 115).

(28) G. FRASCARELLI, Miscellanea d’iscrizioni patrie, Ms. 111, p. 63 v. Cfr. CAPPONI, Annali della città di Ascoli P., Ivi, 1905, II, p. 178.

(29) PASTOR, X, 57, e B. COLONNA, La nepote di Sisto V, cit., p. 158.

(30) Riform., 18, 19 giugno e 2 luglio 1585, cc. 64 e 75 v.

(31) Anche prima di Sisto V si suonavano a stormo le campane all’avvicinarsi dei banditi, per cui molte di esse, nella Visita Aragona del 1580, furono trovate rotte, come a Pantorano, Marsia, Cerreto, Monsampietro, Poggio Anzù, ecc., e ciò «accidit dum datur signum ad persequendum bannitos» (Visit. Ara­gona, cc. 196, 199 v, 201 v, 204 e 205 v).

(32) La bolla è riportata nelle Riform.,c. 92 e seg. e nel Registrum C., cc. 50- 56 dove in calce si legge che essa il 5 luglio era stata affissa sulla porta di S. Giovanni in Laterano, di S. Pietro, della Cancelleria Ap. «et acie Campi Florae ut moris est».

(33) Riform.,18 e 21 luglio 1585, cc. 92 e 94 v.

(34) Prova ne sia che in questo tempo, per risparmiar spese, Ascoli chiedeva la riduzione degli sbirri mandati contro i banditi (Registrum C ,cc. 48 v, 57 v, 58 e 59 v).

(35) Riform., c. 97.

(36) Però in qualche parte si combatteva con serietà contro i banditi, come ad Offida, dove il 6 agosto risulta che essi erano stati assediati sull’Aso (Arch. Com. di Offida, Liber Exitus, c. 12 v).

(37) PASTOR, X, 62 e 64; B. COLONNA, op. cit.,161.

(38) Riform., c. 149 v.

(39) Copia del breve, da cui ho tratto gli elementi della narrazione, si trova in Riform., c. 144, e porta la data del 30 ott. 1585.

(40) Riform., cc. 149 v e 157 v.

(41)Il breve di nomina del Landriano, il quale giunse qui il 4 ottobre, è del 21 sett. 1585 (Registrum C.,c. 61 v). Cfr. Riform.,7, 8, 14 ott., cc. 162 v e 176.

(42) Arch. Capit., Lettere diverse, H 1, c. 3. Penso che la grassazione contro i! vescovo Aragona dovette avvenire proprio nel suo feudo. Maltignano fu resti­tuito ai canonici solo il 16 genn. 1588 (Ibidem, cc. 5 e 13).

(43) Riform., c. 192. Il PASTOR. X. 64, scrive che il nuovo editto fu pubbli­cato il 5 novembre: ma ciò è impossibile, perché il 2 era già giunto nella nostra città.

(44) Scrive DE HÜBNER, op. cit., I, 219: «Le bande, oltreché meglio vestite e vettovagliate, avevano maggiori riguardi verso le popolazioni rurali che non le soldatesche regolari, le quali erano il terrore dei paesani. Venivano chiamati «ammazzatori» e si paventavano più questi difensori che i perturbatori dell’or­dine publico».

(45) Riform., 3 e 4 nov. 1585, cc. 194 v e 199. Il can. Serafini nell’opuscolo ms. Dell’acquisto et conservatione della pace della... città d’Ascoli dedicato a Sisto V e già citato, aggiunge un altro motivo: i banditi con un giorno e una notte di mare potevano trovare scampo nella Dalmazia e partirne all’improvviso a loro piacimento (Libro I).

(46) PASTOR, X, 59.

(47) Riform., cc. 200 e 202 v.

(48) Riform., 7, 8, 10 e 11 novembre 1585, cc. 202 v, 205 e 209 v. Provvidero anche a inviare commissari a Poggio di Bretta, Castel Trosino, Piagge, Lisciano, Folignano, Monteprandone, Monsampolo, Castorano, Castel di Lama, Appignano, Ripaberarda. Castiglioni, Acquasanta ed altri paesi. Il 28 nov. 1585 uno di questi commissari comunicava agli Anziani di aver posto corpi di guardia a Mozzano, Tronzano, Roccacasaregnano, Marsia, ecc. (Busta XI, Fasc. II).

(49) Riform.,18, 22 nov. e 2 die. 1585, cc. 215, 218 v e 221. Il 10 die. il nostro concittadino cap. Sforza Carmignani era eletto da Roma capo «dei soldati della battaglia» di stanza in Ascoli, perché era «fuori d’interesse, sospetti et inimicitia con persone» (Registrum C., c. 64).

(50) Nel breve di nomina del Martinez (Reg. C. c. 62 v) il papa ricordava che all'inizio del suo pontificato lo Stato della Chiesa rigurgitava talmente di banditi, per cui non solo i viandanti erano soggetti alle aggressioni, «verum etiam qui se domi suae etiam in civitatibus et locis muris circumdatis contine­bant, occisionibus et incendiis obnoxi essent». In questo med. breve si parla della elezione di mons. Schiafenati, al quale si concedeva il diritto di farsi accompa­gnare da 60 militi di Montalto, Porchia, Patrignone e Montedinove, in ragione di 15 ciascuno. Cfr. Riformanze, cc. 235 v e 240. Costui era stato governatore di Ascoli a cominciare dal 2 sett. 1576 (Registrum C. c. 26).

(51) Riform., 14. 16 e 20 genn. 1586, cc. 246, 249 e 252 v. Durante la rigida invernata furono soccorsi i poveri e si scelsero otto cittadini a cercare elemosine e a distribuirle ad essi. Contemporaneamente si estirparono i boschi dove i banditi si erano annidati: nel genn.-febbr. 1586 la comunità di Offida inviò 100 uomini in quella di Rovetino (Arch. Com. di Offida, Liber exitus, c. 36).

(52) Riform., cc. 12, 17, 21 e 22 v. La risposta del cardinale, in data 5 aprile, si trova nella Busta VII, Fasc. V.

(53) MARCUCCI. 403. Cfr. la Cronaca ascolana n. 22, c.40. la quale afferma che i giustiziati per ordine del governatore furono 83, «oltre le teste che li se por­tavano». Una testa un po’... retriva, appartenente al bandito Matteo di Alfonso di Pietralta, fu consegnata al governatore d’Ascoli l'8 ott. 1587 da Pietrangelo Carosi del medesimo paese, cui fu dato in compenso 100 fiorini (atti di Rocco Ricci, c. 99).

(54) Riform., cc. 26, 27 v e 32.

(55) Riform.,  cc. 61 e 63 v.

(56) Ibidem, c. 68 e Arch. Com, di Offida.Liber Exitus, c. 61 v. Secondo l'au­tore della Cronaca ascolana n. 22, c. 40. lo Schiafenati fece giustiziare più di 100 persone, «oltre le molte teste che li fumo portate». Una tradizione riferita dal GALLI, Notizie intorno alla vera origine, patria e nascita del Sommo Pont. Sisto V, cit., vuole che sotto di lui funzionassero 7 paia di forche. Dedicò a Si­sto V anche una iscrizione, in cui lo chiama Pietatis et iustitiae valde amato­ri - purgato Piceno - a diuturna facinorosum hominum - infestatione (PISTO- LESI, Sisto V e Montalto, cit., p. 108).

(57) Riform., c. 71.

(58) Ibidem, cc. 143, 145 v e 146. Però la notizia, si direbbe ufficiale, della fine del banditismo si ebbe solo nell’anno seguente: il 12 nov. 1587 Giacomo Paliucci annunziava nel Consiglio che «Deo gratia non ci son più banditi per queste banne, né per lo presidato» (Ibidem, c. 175 v).

(59) G. POLI, Sisto V, Roma, 1922. p. 59.

(60) I! papa, volendo combattere i corsari che infestavano il Tirreno e l'A­driatico. fece impostare sei galere e non ebbe pace finché non ne vide quattro armate (B. COLONNA, op. cit..p. 168). Per raggiungere lo scopo impose contri­buzioni a tutte le città e terre soggette. Nella nostra città si parlò di questo ar­gomento nel Consiglio Gen. del 28 nov. 1586. Era presente il governatore Lan­driano, il quale impose al cancelliere di annotare che mentre egli diceva che per le triremi c'era tanto di bolla di Sisto V, Giuseppe Vincenzo Pacifici disse forte: «Che bolla, che bolla!».La contribuzione richiesta alla nostra città era di 6 mila scudi. Vedi Riform., 1586. cc. 176. 177, 178, 191 v: 1587, cc. 140. 149 e 158.

(61) Secondo l'autore della Cronaca ascolana n. 22. c. 41 v. la carestia fu grande in Ascoli, nello Stato della Chiesa e altrove: si manifestò sopratutto dal­la mietitura del 1585 a quella dell'anno successivo. Aggiunge: «In Ascoli si dava il pane alli fundichi doi volte il giorno à suo7io de campana».Il grano venne a pagarsi 16 fiorini la quarta. Cfr. Riform. 23 e 28 aprile 1586. cc. 32 e 34: 18 aprile e 15 ott. 1587. cc. 74 e 163 v, ecc. Nell'adunanza del Consiglio del 22 die. 1588 venne rievocato che Mons. Landriano. in un momento cruciale, «perché il popolo non si sollevasse per la fame», acquistò una partita di grano dal ve­scovo, pur essendo in viaggio cinque legni carichi, che si temeva però non giun­gessero in tempo (Riform., c. 159 v).

(62) Cfr.Riform.,19 e 21 ottobre 1586. cc. 157 e 160 v: 18 genn. e 15 febbr. 1587, cc. 11 e 15.

(63) Il Landriano cessò dalla carica tra il 27 maggio e il 14 giugno 1587 (Ri­form., cc. 88 e 96 v). Nel 1575, quale luogotenente del governatore di Fermo, ave­va fatto costruire la grande porta di granito nel palazzo del Governo sulla piaz­za di Fermo (DE MINICIS, Eletta dei monumenti più illustri... di Fermo e suoi dintorni, Roma, 1841, I, pp. 60-61). Nel 1591 fu inviato in Francia da Gregorio XIV per la questione degli Ugonotti (PASTOR, X, 547-54). In Ascoli venne sosti­tuito da Lorenzo Turino di Pescia (Registrum C, c. 70). Negli ultimi tempi in cui il Landriano stette tra noi, aveva per luogotente Pomponio Trinca di Nor­cia, che l’il marzo 1587, facendo testamento, lasciava pii legati a molte chiese della sua città natale e di Ascoli. Costui aveva in moglie la nobil donna Flami­nia Tibaldeschi di Norcia, che fece erede universale, mentre il figlio Girolamo raccomandava al Landriano. cui volle che ogni anno venisse dato «libras quinquaginta casei dulcis optimi emendi in terra Nursie» (atti di A. Antonelli, 11 marzo 1587, c. 295). Riguardo alla porta voluta dal Landriano. pur essendo stata terminata quando egli andò via, mancava ancora di qualche rifinitura nell'apri­le del 1589 (Riform., c. 210).

(64) Cfr. B. ORSINI, Descriz. delle pitture sculture architetture... di Ascoli, cit., p. 90, e G. CARDUCCI, Su le memorie e i monum. di Ascoli, cit. p. 97. Tutti gli scrittori municipali ne attribuiscono il disegno ad Antonio Giosafatti.

(65) P. CAPPONI, Annali della città di Ascoli P., Ivi, 1905, III, p. 114. 

(66) Essa dice così: Sisto V Pont. Opt. Max. sceler. vindici - Et quietis funda­tori Marsilius Landr. - Mediol.s Gub. porta veteri clausa novam - Hanc consti­tuit viam stravit muniti - co aere pubblic. privatorum multatio - Limina sangui­neis quondam patefacta triumphis - Marsilius claudens haec nova pacis agit (G. ANGELINI-ROTA, Silloge Epigrafica Ascolana, p. 343, Ms. n. 35 nell’Arch Stor. Comun.).

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