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Principi giapponesi a Bagnaia

  • Scritto da Yasunori Gunji
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Nel marzo del 1585 un insolito corteo giungeva a Bagnata, feudo vescovile di Viterbo, e si fermava nel­la villa del cardinale Gianfrancesco Gambara: era il corteo dei primi ambasciatori giapponesi mai giunti in Europa.

Si trattava di una missione religiosa: gli ambasciatori erano diretti a Roma, dove erano attesi con vivissima aspettazione (1) dal papa Gregorio XIII, a cui avrebbero portato le lettere di ossequio dei tre daimyo cristiani di Kyushu, l’isola più meridionale del Giap­pone. Per la maggior parte degli europei questo paese era allora poco più che l’eco di racconti favolosi, ma c’era già chi ne aveva una idea abbastanza precisa.

« Il Giappone è un paese isolato, grande come tre volte l’Italia, scoperto quarantacinque anni fa da mer­ canti portoghesi naviganti oltre l’India orientale fra Levante e Tramontana, situato nel nostro emisfero, havendo elevato il Polo Artico trentacinque gradi in circa, ma per Diametro quasi contrapposto all’Italia... »: inizia così l'attentissima e acuta relazione, tempestivamente pubblicata a Venezia da Paolo Meietto, il 23 aprile dello stesso 1585 (2). E continua più sotto: « È diviso in sessantatre Signorie, habitato da gente soverchiamente desiderosa d ’honore, e di regnare; laonde quei Prencipi fra di loro sono in continue guerre per confermare e accrescere li Stati ».

De missione legatorum Iapon

È senz’altro questa situazione di conflitto interno, ben rilevata dal Veneziano, uno dei motivi principali che permisero la penetrazione del Cristianesimo in Giappone nel XVI secolo, al seguito dei primi mercan­ti portoghesi sbarcati a Tanegashima nel 1543.

I sovrani locali giapponesi (daimyo), impegnati nel­ lo sforzo di accrescere il loro potere militare ed eco­ nomico, accolsero infatti con favore gli scambi com­ merciali con gli Occidentali, che potevano offrire armi da fuoco e oggetti tecnicamente nuovi, e dimostrarono un notevole interesse verso tutto ciò che costituiva la loro scienza compresa quindi la religione.

Occorre subito sgombrare il campo dal pregiudi­zio che il Giappone fosse allora un paese economica­ mente arretrato rispetto all’Europa: nonostante le continue guerre interne, infatti, nel corso del periodo Muromachi (1338-1573) il Giappone aveva attuato una vigorosa espansione economica, con trasformazioni agricole accompagnate dall’affermarsi delle corporazioni artigianali (Za) e da una sempre maggiore monetarizzazione e commercializzazione dell’economia. Esistevano città ricche e popolose in gran numero, non più solo nei centri amministrativi tradizionali, ma nelle province e intorno ai porti e mercati maggiori.

Il commercio con la Cina era ampio e altamente redditizio, e, nel momento dell’arrivo dei Portoghesi a Goa e poi a Macao, i signori feudali giapponesi com­prendevano benissimo l’importanza dei redditi mercantili come mezzo per accrescere la potenza delle loro città.

Dalla seconda metà del Cinquecento fino alla chiu­sura dei rapporti con gli stranieri (1639) che portò alla cessazione della maggior parte del commercio in­ ternazionale del Giappone, circa 10.000 Giapponesi emigrarono verso le coste dell’Asia per costituirvi co­ lonie commerciali (3).

(•’) Inoue Kiyoshi. « Nihon no Rekishi », Tokyo, 1963, voi. I., pag. 274. (4) Inoue Kiyoshi, op. cit., pag. 275. (5) Vedi il testo delle lettere, riportato in versione italiana nella: « Descrittione del l'amba scia ria dei regi et principi del gran Regno del Giappone, venuti nuovamente a Roma, a render obbedienza alla Santità di Gregorio XIII Pontefice Massimo », Venezia, 1585.

In questa relazione, di Onofrio Farri, sono contenuti anche i testi dei discorsi pronunciati durante il ricevimento ufficiale in Vaticano dal gesuita Consalvi a nome degli ambasciatori e dal Segretario dei Brevi, Antonio Boccapaduii, a nome del papa. (a ) Inoue Kiyoshi, op. cit., pag. 232.

Traendo profitto dalla conoscenza della tecnica na­ vale dei Portoghesi, le piccole navi usate fino a quel momento furono trasformate in unità di stazza mag­ giore, adatte alle traversate oceaniche, e nel 1613 una seconda missione giapponese, mandata dal daimyo Date Masamune (con il consenso dello stesso shogun Tolou- gawa leyasu) ad aprire il commercio con il Messico, raggiungeva con una nave giapponese e 180 uomini di equipaggio l’Eutopa, e riperoorerva la strada per Ro­ ma (4). Un impressionante viaggio durato sette anni, attraverso il Pacifico e l’Atlantico: dovette però cer­ tamente causare negli Europei minore interesse della prima spedizione, di cui ci stiamo occupando, poiché veniva a mancarle il fascino della novità, sottolineato dagli osservatori dell’epoca.

Il carattere prettamente mercantile di questa seconda missione è un altro elemento di differenziazione rispet­ to alla precedente: nella missione inviata dai tre dai­ myo, infatti, è da escludere che si volessero ottenere direttamente benefici commerciali.

È da sottolineare invece che l’atto di sottomissio­ ne al Papa recato dagli ambasciatori, una vera e pro­ pria « commendati© » feudale (5) da parte dei tre si­ gnori (ancorché occorra considerarla nominale a causa della grande distanza), fu voluto dal governatore di Hizen, Omura Sumitada, e fu poi parte determinante nella decisione del nuovo capo militare e politico del Giappone, Toyotomi Hideyoshi, nel 1587, di bandire il Cristianesimo dal Giappone: era infatti in gioco il possesso dell’importante città portuale di Nagasaki (’).

Introducendo il Cristianesimo nei loro domini, e addi­ rittura — come in questo caso — riconoscendone l’ap­ partenenza al Papa, i signori feudali giapponesi gioca­ vano una grossa carta a favore della propria indipen­ denza nei confronti del potere centrale, che proprio in quegli anni aveva iniziato l’opera di riunificazione e

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Galeone del XVI-XVII secolo (Paravento giapponese - Museo dell’arte occidentale di Kobe).

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Ritratto del quattro ambasciatori: a destra In alto: ITO MANTIO, a destra In basso: CHIJWA MICHELE; a sinistra In alto: NAKAURA GIULIANO; a sinistra In basso: HARA MARTINO; al centro in aito: DIEGO MEZQUITA, gesuita. I vestiti sono quelli loro regalati dal papa Gregorio XIII. (Biblioteca dell’università di Kyoto).

cercava di affermare la propria autorità solfe signorie locali (7).

(7) Secondo il Von Pastor, l’atto di sottomissione fu voluto dal Visitatore gesuita Valignani, organizzatore della delegazione, per dar prova « che il suo energico appoggio alla missione giap­ ponese aveva portato buoni frutti » (L. Von Pastor, « Storia dei Papi », Roma 1955, voi. IX, pag. 725).

Questo è senz’altro possibile, ma non bisogna trascurare l’interesse dei daimyo, che difficilmente avrebbero accettato di infeudare al Papa i loro domini, se non vi avessero visto un espediente politicamente efficace per affermare la loro autono­ mia nei confronti del potere centrale.

II periodo che va dalla metà del XV secolo alla metà deè XVI circa è caratterizzato in Giappone dalla presenza di auto­ rità locali autonome, i daimyo; essi governavano dei territori suddivisi in feudi, con autorità sovrana. Anche se non avevano più un vero potere politico, rimanevano però a Kyoto sia l’im­ peratore che lo Shogun (il governatore militare), almeno come simboli dell'unità del paese. Verso il 1560 i daimyo più potenti avevano costituito degli stati regionali, sottomettendo i più de­ boli. Uno dei capi regionali, Oda Nobunaga, riuscì nel 1573 a conquistare la stessa capitale Kyoto e iniziò un’opera di unifi­ cazione (da lui fu ricevuto e benevolmente accolto il Valignani,

Interessi economici, dunque, ed interessi politici possono spiegare in una notevole misura la favorevole accoglienza ricevuta da Francesco Saverio e dai suoi missionari della Compagnia di Gesù, sia nel Kyushu che, per un certo periodo, nella stessa capitale Kyoto; ma, ovviamente, l’alto numero di conversioni non è spiegabile solo con questi motivi: nel 1582 il visita­ tore gesuita Alessandro Valignani contava i convertiti a circa 150.000 (e l’arrivo di Francesco Saverio è solo del 1549!). Molto deve aver contribuito l’alta statura

che però non riuscì a convertirlo al Cristianesimo). Il suo suc­ cessore, Toyotomi Hideyoshi, portò a termine l'unificazione del Giappone, mantenendo però il sistema dei daimyo: si alleò con i più potenti e sottomise militarmente ; più deboli. Nel 1587 Hideyoshi ottenne il controllo diretto del porto di Nagasaki e a quest'anno risale il suo editto di proscrizione del Cristianesi­ mo. La proibizione definitiva si ebbe poi con il nuovo Shogun ed effettivo signore del Giappone, Tokugawa leyasu.

Per altre notizie, cfr. ad esempio: J. W. Hall « L'impero giapponese », Storia Universale Feltrinelli, Milano 1969.

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La piazza « di fuori i di Bagnala, circa il 1910.

morale e la vasta cultura dei padri gesuiti, unite alla loro disponibilità ad apprezzare e comprendere i co­ stumi del paese. Fanno fede della sincerità delle con­ versioni le stesse lettere inviate al papa Gregorio XIII dai tre signori giapponesi, ricche di fervide espressioni cristiane (8), nonché il comportamento dei loro amba­ sciatori, unanimamente descritto dalle relazioni dell’e­ poca come assolutamente edificante e pio.

Abbiamo citato il Valignani, ed è proprio a questo energico gesuita che si deve l’organizzazione della pri­ ma missione giapponese a Roma. Aderirono al suo in­ vito i tre daimyo di cui dicevamo: Ornerà Sumitada, battezzato per primo con il nome di Bartolomeo, si­ gnore di Hizen; Arima Harunribu, battezzato come Pro- tasio, signore nella stessa regione e nipote di Omura; infine, Otomo Yoshishige (detto Sorin), chiamato dai cristiani Francesco, « re » di Bungo: il più potente dei tre.

I daimyo scelsero a rappresentarli due giovanis­ simi congiunti ritenendoli meglio adatti a sopportare le fatiche del lungo e rischioso viaggio: Ito Mantio, di circa quindici anni, cognato di Francesco e quindi ca­ pomissione; Chijiwa Michele, ugualmente quindicenne, cugino di Arima e nipote di Omura. A questi due prin­

cipi si aggiunsero altri due giovani detì’alta aristocrazia, Nakaura Giuliano e Hara Martino.

Il 20 febbraio 1582, gli inviati, accompagnati da molti servitori, partivano dal porto di Nagasaki su una nave portoghese, per un viaggio che, tra andata e ri­ torno, sarebbe durato otto anni e mezzo. Facevano par­ te della spedizione Alessandro Valignani, che fu però costretto a fermarsi a Goa perché nominato Provin­ ciale delle Indie (trasmise la tutela degli inviati al pa­ dre Nunzio Rodriguez), e due interpreti: un prete por­ toghese, il padre Mesquita, e un anonimo gesuita giap­ ponese. Benché, durante i loro studi e nel lungo viag­ gio, avessero imparato (come dice il Meietto) « la lin­ gua Portoghese bene, e la Spagnuola mediocremente, la Latina in gran parte, e intendono l’italiana quasi tutta, avvenga che non la parlino sicura », i giovani principi usarono costantemente servirsi di tali inter­ preti durante le loro conversazioni ufficiali con gli Europei (®).

Del viaggio ci è rimasta una interessante relazione degli stessi protagonisti, raccolta e tradotta in latino sotto forma di dialogo dal gesuita Eduardo De Sarde, pubblicata a Macao nel 1590 con l’autorizzazione dello stesso Valignani, ad edificazione dei giovani catecumeni

(8) 0. FARSI, « Descrittione », op. cit. (») Cfr, Meietto « Relatione » cit., e Voti Pastor, op. cit.

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giapponesi. Il dialogo, intitolato « De missione legato- rum laponensium ad Romanam Curiato », si svolge tra i quattro ambasciatori e due cugini di Michele, chia­ mati Leo e Lino, che non hanno mai lasciato il Giap­ pone e li interrogano sul loro viaggio e sulle costu­ manze degli Europei.

Dopo un fortunoso viaggio durato due anni e mez­ zo, la spedizione raggiungeva Lisbona, il 10 agosto 1584, e si avviava alla volta di Madrid, dove gli in­ viati furono ricevuti dal primo sovrano cristiano, Fi­ lippo IT di Spagna. Quasi un anno dopo, i messi rag­ giunsero le coste dell’Italia, sbarcando a Livorno il 1° marzo 1585: grandi accoglienze furono loro prepa­ rate dal Granduca di Toscana, che fece loro visitare Pisa, Firenze e Siena. Le macchine fotografiche non esi­ stevano ancota, ma questi primi turisti giapponesi ci hanno ugualmente lasciato, nella relazione, delle de­ scrizioni della Firenze medicea che possiamo definire fotografiche per abbondanza e precisione di particolari.,.

Partiti da Siena il 17 marzo, gli ambasciatori en­ trarono finalmente nel territorio della Chiesa, già a San Quirico avevano trovato un messaggio papale che li invitò ad affrettarsi, in quanto il Pontefice li attendeva con grande ansietà. Presagiva forse di non aver più molto tempo da vivere. Ma seguiamo ora il racconto dello stesso capomissione, Ito Mantio: « Ci affrettam­ mo quindi quanto potemmo... passando per Bolsena, arrivammo a Viterbo, e prima che vi entrassimo, fum­ mo ricevuti dai maggiorenti con duecento armigeri che ci vennero incontro, e fummo condotti in un alloggio sontuosamente allestito » (,n).

Il Pontefice stesso aveva dato ordine al Vicelegato di Viterbo e protonotario Apostolico, monsignor Gra­ zio Celso, « che nell’entrare nello Stato ecclesiastico li provvedesse di onorata compagnia e di tutte le altre cose convenevoli e necessarie. Nel che si portò quel prelato con tanto fervore che non lasciò luogo né a ricordi né a stimoli » f* * 11). A dire il vero, non sarebbe­ ro forse state necessarie le premure di monsignor Celso, in quanto tutti i nobili e le alte cariche ecclesiastiche italiane fecero a gara nell’offrire loro ospitalità o nel- l’assicurarsi per lo meno una visita degli ambasciatori di quel lontano paese: così lontano, che alcuni dubi­ tavano perfino della sua reale esistenza (12).

fin; a Di? missione» cit, Dialogo XXI. (I ] ) G. P. MAITEI, "Degli Annali di Gregorio XIII», Roma 1742, voi. II, pag. 393. (I2 ) Von Pastor, op. cit., pag. 728. (13) MEIETIO, J Belartene », cit.

A tal punto giungevano l’entusiasmo e la curiosità, che durante la permanenza a Roma il Papa dovette proi­ bire agli ambasciatori di accettare qualsiasi invito, te­ mendo che per l’eccessivo numero di ricevimenti la loro salute ne avesse a soffrire f13). D’altra parte, quan­ do era loro possibile, i giovani preferivano l’ospitalità dei Gesuiti, alla cui guida si erano affidati.

La fretta di arrivare a Roma non impedì loro però di approfittare di quelle che erano le meraviglie della provincia di Viterbo: le « delizie » di Bagnaia e il ca­ stello di Caprarola.

Continua infatti Mantio: « Visitammo anche un luogo chiamato Bagnaia, costruito dal Cardinal Gambata

per piacere e delizia, dove ci vennero offerti motivi di diletto e godimento in misura non minore che nella vida di Pratolino del Granduca di Toscana; sebbene, infatti, d lilogo sia più piccolo, contiene anche una riserva di caccia assai adatta, in cui. valendoci di quei cani da caccia dei quali in Europa si fa grandissimo uso, stanammo della selvaggina e la prendemmo » {141, Fermiamoci su questa notazione per fare alcune con­ siderazioni. Innanzitutto, occorre spendere qualche pa­ rola sul Cardinal Gambata, quel singolare prelato che sembra riassumere in sé tutto lo spirito dell’Italia rinascimentale, ìn procinto di essere sommerso dall’on­ data della Controriforma, Giànfr.incesto Gambata, figlio di Brunoro dei conti di Gambata, una delle più illustri e antiche famiglie nobiliari di Brescia, non fu a caro nipote del gran cardinale liberto e della raffinata poetessa petrarchista Ve­ ronica Gambata. Addottoratosi a Padova e a Perugia, nominato Vescovo di Viterbo nel 1566 e Grande In­ quisitore, fu uomo di religione, ma anche di profonda cultura, e, insieme ad Alessandro Farnese e a Ferdi­ nando Medici, fu tra i cardinali più ricchi e più esperti di cose d’atte t1'1).

Nel 1585, quando ospitò Ì legati giapponesi, non era più Vescovo di Viterbo, ma aveva mantenuto il pos­ sesso di Bagnaia, in cui aveva fatto abbellire il palazzo vescovile e costruire buona parte della splendida villa unita al « Barco », la riserva di caccia già esistente.

Tanta affezione dimostrò al luogo, che proprio in que­ gli anni impose al comune di Bagnata la costruzione di una Hostaria per l'alloggio dei forestieri, per maggior decoro del borgo, che ne era privo ("fi.

Il suo viso ci appare, in un ingenuo ritratto di ano­ nimo F'ì, dominato da un'"ampi a fronte e da grandi oc­ chi brillanti, che esprimono intelligenza e avidità di piacere. Naturalmente, non si tratta di piaceri volgari, ma di quell’amore per le cose belle e raffinate che pro­ dusse gli splendori artistici della civiltà del Quattro- cento e del Cinquecento in Italia, Ima concezione edo­ nistica della vita che non era priva di spiritualità, ma che non poteva essere compresa dai severi riformatori del calibro di un Ciarlo Borromeo, da cui infatti il Car­ dinal Gambata ebbe fieri rimproveri per aver « spre­ cato » ricchezze ed energie nella costruzione della palaz­ zina di Bagnaia e delle circostanti « delizie », di cui me­ ritatamente entusiasti si mostrano i visitatori giappo­ nesi, Possiamo facilmente immaginare lo spettacolo of­ ferto in quel giorno di marzo agli occhi curiosi degli abitanti del borgo, certamente accorsi in folla a vedere il corteo proveniente da Viterbo.

Per aiutare la fantasia, possiamo ricorrere ancora all’osservatore veneziano, che ci ha lasciato una descri­ zione minuziosa dell’aspetto fìsico e dell’abbigliamento degli ambasciatori giapponesi: « In quanto al corpo, so-

«De missione», cit., dialogo XXI. ( ■») VtXCEwo FRITTELI], «La bulla delle gabelle, le delizie di Bagnaia c i cardinali Gambara e Borromeo », da « Lunario Romano 80» pag. 148. Di qui sono state tratte anche le notizie seguenti su Carlo Borromeo. (bì) V. FRITTELLA « Bagnata, cronache d’una Terra del Pa­ trimonio », Roma 1977. pagg. 61-62. {’■) Sta in Pompeo Litia, « Famìglie celebri d'Italia », voi. X,

NOTE

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(1) «De missione legatorum laponensium ad Romanam Curiam, rebusque in Europa ac toto itinere animadversis dialogus, ex ephemeride ipsorum legatorum collectus et in sermonem latinum versus ab Eduardo de Sande Sacerdote Societatis lesu », Macao, 1590, dialogo XXI.

Nelle note successive sarà indicato come: « De Missione », cit. Cfr. la versione giapponese: «Kenòshisetsukenbuntaiwaroku», Tokyo, 1942.

(2) « Relatione del viaggio et arrivo in Europa et Roma de' principi Giapponesi, venuti a dare obedienza a Sua Santità l’an­ no MDLXXXV », a cura di Paolo Meietto, Venezia, 1585.

Nelle note successive sarà indicato come: Meietto, « Relatione », cit.

 

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