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Il brigantaggio Piceno nella storia.


Cap. I - Il brigantaggio nello Stato Pontificio  XVI-XVII secolo, o meglio il “Bannitismo”.

L’attività  di  “banditismo”  nello Stato Pontificio inizia con il XVI secolo. Pesanti carichi tributari gravano sulle comunità sottoposte all’autorità politica del Pontefice. L’immediata conseguenza è il ristagno delle attività economiche, l’impoverimento dei contadini e dei piccoli proprietari. La Curia Romana pensa di legare a se le classi dominanti con la concessione di privilegi e status nobiliare atti a gestire il Governo locale, attuando una  separazione di ceto e la centralizzazione in senso generale. I Comuni vedono perdere la loro autonomia, intanto che si configura un pericoloso accentramento del potere. I nuovi nobili aboliscono gli statuti dei liberi comuni, fatti dai rappresentanti di ogni ceto, che riuscivano a tenere a freno il deleterio di rinascere delle fazioni, che veniva ora, dai nobili fomentato. Il potere ecclesiastico nella persona del  Papa Gregorio XIII non è stato in grado di dominare la situazione.

Tutto questo indebolisce l’economia artigianale e porta alla nascita  di nuove figure come esattori e imprenditori.

L’industria laniera, perno dell’economia dell’entroterra Piceno, subisce una profonda crisi, in un breve arco di tempo si chiudono filande e gualchiere. La politica romana porta all’impoverimento del territorio con il conseguente decremento demografico. Nelle campagne la privatizzazione degli usi civici è la principale causa di indebitamento e fame. I nobili di vecchia data, impoveriti, si danno alla razzia, trascinando con essi il popolo disperato, angariato e affamato.

In mezzo al caos del periodo,  riemerge  quel brigantaggio, che ha pur sempre la sua radice profonda nelle carenze sociali e nella sfiducia del popolo verso il potere centrale.

panorama quadroIL BRIGANTAGGIO A COMUNANZA

Non di rado, i vecchi comunanzesi, usano i termini Comunantia Latronum e Cummunella  de latri.  Dove affondino le radici di questa tradizione orale, nessuno sapeva dirlo fino ad ora, ma alla luce dei documenti qui raccolti  essa  si concretizza  aprendo uno spiraglio su una parte poco nota della storia del nostro paese.

Cap. II.  I Nobili

I Nobili, Signori De’ Monte Pasillo e padroni della “Communanthia Montis Pasilli” che dopo la capitolazione di questi con la Città di Ascoli diverrà ”Civis distectualis  Esculi”, hanno avuto banniti  in famiglia, come scrive il Vittori: “In quel tempo le nostre contrade erano infestate da bande di fuoriusciti, di ex militari e di malviventi, che, dai loro covi d’Abruzzo  e di Monte Pasillo, istigati dai signorotti spodestati, portavano ovunque rovine e morte”.[1]

Nel 1549, una temuta banda di fuoriusciti capitanata da Federico di Cesare De’Nobili, “bannito et hora rebello de la S. Chiesa è pubblico inimico de la sua patria[2] fiero ghibellino, proveniente da Mogliano ma presente fino a quel momento  nello Stato di Fermo,  imperversava per le nostre campagne “Con comitiva di 300 huomini e più, scelerati, discoli e sediziosi (….) abrusiando case e strami, bestiami, robando animali, biadi, grani; appiccando huomini, taglieggiando huomini…[3]. Allo scopo di sedare i banditi, fu chiamato con la sua compagnia di soldati, il Magnifico Capitano Masino dei Nobili di Monte Pasillo[4] come paciere, perché, dei banditi era “Buon amico[5] e un altro Capitano del Papa Vincenzo Nobili, anche esso con legame di parentela con il bannito.

Di certo, questi Nobili in armi, sia da una parte che dall’altra della barricata, ma in qualche modo uniti, ci fa meditare su quale  sciagurata situazione  di conflitto si potesse trovare, in questo periodo, tutta la popolazione comunanzese.

Scrive il Mannocchi, che dopo l’insuccesso del Capitano Masino,  Papa Giulio III  mandò contro il De’ Nobili,  il rinomato condottiero Ascanio della Cornia,  aiutato dalle truppe capitanate da  Rocco da Monte Calvo e Masio della Glierosa[6], quest’ultimo  lo troveremo in seguito, come bannito  comunanzese,  in lotta contro il potere centrale.

stemma ComunanzaCap. III.  Masio, bandito comunanzese

Nel 1559 i soldati mandati dai Priori di Amandola e capeggiati dal Commissario Generale, visitarono tutti i comuni, alle falde degli Appennini, interessati al banditismo (M. Fortino, M. Monaco, M. Gallo, Amandola, Comunanza, Sarnano e Force) “ per dar caccia ai banditi e per purgarne la provincia” [7] e  a questi comuni fu ordinato di mobilitarsi contro di essi.  L’anno dopo, il 21 novembre 1560, il Governo di Amandola  ripeté l’ordine e questa volta,  vi era inserito un elenco dei capi banda;  il più temerario dell’entroterra ascolano era un tal “MASIO della Glierosa” proveniente cioè da Gerosa, frazione di  Comunanza, posta nella boscosa zona montana, poco vicina alla strada di grande percorrenza che da Macerata porta ad Ascoli, chiamata nel periodo romano “Salaria Gallica”.

Comunanza, per la sua posizione geografica (crocevia di strade di grande percorrenza), per la conformazione morfologica del territorio (una corona di colline boscose e impenetrabili), era particolarmente adatta per le attività di brigantaggio. I saccheggi si susseguivano ai danni di coloro che si avventuravano per la strada di Ascoli e che, se restavano in vita,  vedevano le  loro mercanzie scomparire, insieme al furfante, per la fitta boscaglia di Collechiaro.

La banda di Masio, che come afferma il Ferranti, era un branco di “leoni assetati di sangue[8], operava in un vasto territorio montano compreso nei possedimenti di  Comunanza,  Montegallo (S. Maria in Lapide) e Montemonaco.  Essa, non era costituita solo da comunanzesi, ma, dal 1561, un grosso apporto venne da alcuni amandolesi  ufficialmente esiliati per delitti, ma certamente facenti ancora parte di quella schiera di fieri ghibellini, come i giovani della nobile famiglia dei Manardi, ossia Morgante, Matricardo e Cecco, figli di Giovannantonio e Tideo  figlio di Alessandro.  Essi furono condannati al bando dal Podestà Brunoro dal Sole di Venezia [9] per aver ucciso il fratello di Ser Nicola Don Pucci.  Mentre nel loro  paese  ci si adoperava per  una concordia tra le due famiglie, i Manardi assieme a Masio,  compivano numerosi delitti e soprusi.

I banditi dovevano essere sconfitti. Ma non bastò neanche l’intervento del Maresciallo Girspolto da Bettona con la sua Compagnia e nemmeno l’ordine emanato a tutti i comuni del territorio, di prestare aiuto per catturare tutti i banniti e omicidiarii.  

Le innumerevoli azioni di questa banda, destavano forti preoccupazioni e molto si fece per cercare di scovare i banditi  nel loro “quartier generale”.  Si arrivò a presumere  che il  covo di Masio fosse a  Villa Gerosa,  allorché nel 1561 “Spedì, il Comune, nel giorno stesso al Governatore di Ascoli, ai Priori di Comunanza, e nella villa Gerosa per prendere  informazioni e concerti” [10]. Da li a poco tempo, Amandola corse a chiedere aiuto a Nicolai Brocherio dei Nobili di Monte Pasillo [11], ma essendo egli intellettuale e al di fuori da simili lotte, non azzardò alcuna azione personale, ma si limitò  a scrivere ai Priori di Ascoli pregandoli di voler prendere riparo[12].

I fatti che si susseguirono, ci danno la certezza che  queste epistole non servirono a molto perché, soprattutto la zona montana di Comunanza, si veniva via via organizzando.

Nacquero molti covi  disseminati nei vari castelli come quello di  Castelfiorito  dove, lo spietato  bandito “di alto rango” Alfonso Piccolomini duca di Montemarciano, dopo aver seminato terrore ad Ascoli, inseguito da Latino Orsini, si rifugiò  e dove, dopo un cruento combattimento, morirono molti banditi,  fra i quali il famoso “scapigliato” di  Ascoli [13].

Cap.IV.   Un Vescovo visita la “Communanthia latronum”

Mons. Giovanni Battista Maremonti, Vescovo di Utica, effettua una Visita Apostolica  su volere di Papa Gregorio XIII al fine di portare a conoscenza delle nuove disposizioni emanate nel Concilio di Trento (13 dicembre 1545 al 4 dicembre 1563). Egli si reca dal 20 al 22 agosto 1573 nella “Comunantia” infestata da briganti, annota che la Chiesa rurale di S. Maria a Termeallora De Teramo,  si presentava in condizioni preoccupanti: nessun oggetto sacro è presente, i sepolcri scoperti, la campana tolta dal campanile e la porta scardinata. Inoltre, dopo aver constatato che la popolazione non frequentava più quella Chiesa esposta ad ogni tipo di insidia come pure S. Giovanni di Collechiaro e S. Antonio di Monte Pasillo, i quali rispettivi parroci avevano trasferito il domicilio  “into Castrum”, annota che essi svolgevano le Funzioni Religiose a turno  settimanale presso la Chiesa di S. Caterina d’Alessandria d’Egitto[14].

Questa fu l’ultima visita di un Vescovo  nel periodo del brigantaggio, da allora le Chiese rurali furono alla mercé di tutti  e quelle di S. Giovanni e S. Antonio  scomparvero.

Indubbiamente,  questa  situazione di tensione per la presenza dei briganti, alimentava quelle infinite lotte  tra castelli, anche per inezie, perché divisi tra i sostenitori di Fermo e quelli di Ascoli.

Se è vero che nessun centro dello Stato Ascolano fu risparmiato da queste lotte, l’incontestabile fama della “Communantia Latrunum”, che reca non  pochi problemi al Governo ascolano,  è ampliamente esplicitata in questa missiva giunta ai molto Mag.ci.ssi Priori Superiori di Ascoli il 20 giugno 1576, inviata dagli Affett.mi Servi di  Monte Fortino che si lamentavano dei soprusi fatti dai comunanzesi e patiti dagli abitanti di due frazioni.  ”Quando alli giorni passati, gli huomini della Communanza armati in conventicola et al sono di tamburro, entrarono nel nostro territorio, et a furia di archibugiate,  gridando, ammazza, ammazza, ne cacciorno violentemente gli huomini della nostra Villa di Monte a 
Teglia che stavano a rassettar strade pubbliche, per ordine di Mons. Ill.mo Governatore della Marca 
“. Per lo stesso problema,  i massari di Monte Fortino avevano già scritto al Governatore una lettera  con accluso il leso, e pregavano per amor nostro, di iniziare l’essamine contro l’università et particulari della Communanza, ed allo stesso tempo, mandavano  degli ambasciatori presso gli Antiani  di Ascoli, con una lettera piena di amorevolezza, ma anche dispiacere per l’insolenza dei comunanzesi “et con pregar loro signorie vuolesse farle una buona monitione et avvertirli che per l’avvenire procedessero con noi con più rispetto et non incorressero in simili disordini”. Ma mentre attendevano una risposta di gratitudine e affettione,  gli ambasciatori riportarono un diniego, dal  momento che M. Fortino era sotto la protezione di Fermo.  E, come se non bastasse, i comunanzesi tornarono dopo pochi giorni nello stesso luogo gridando “Ascoli, Ascoli!” facendo “turbamento et occupatione”, contestando ai Montefortinesi  di aver ancora  sconfinato con il pretesto di sistemare le strade.  Dopo ciò, gli uomini di Teglia e Monte a Teglia  furono processati presso il Governatore e iscritti nei Libri Criminali. La missiva finisce con la preghiera ai Priori, di voler rimediare a simile ingiustizia, di non credere a ciò che riferiscono i pericolosi comunanzesi, di far cancellare dai libri criminali  gli uomini di Monte Fortino e  “avvertir gli huomini della Communanza  che non incorrano più in simili eccessi….. e  vedrasino poi quanto noi saremo sempre pronti ad ogni servitio di cotesta Magnifica et Generosa Corta, in ogne occasione [15] . Una risposta da parte dei Priori di Ascoli ci fu, ma a difensione  del suo castello, in quanto Mons. Marcucci ci narra con una  metafora“ Mandovvi tantotto, la Città non più che trecento mastini  sotto un capocaccia o sia Capitano,  che fé ritirar  i montefortinesi, temendo dé latrati più grossi[16].

Nel 1584 fu iniziata, da parte del Comune di Amandola, una sorta di trattativa con i briganti e banniti affinché “né loro, né loro compagni danneggeranno in modo alcuno, né faranno altra sorta d’insolenze a Terrieri, né a  contadini della Mandola tanto nel suo territorio  quanto in altri luoghi per dove gli accaderà andare o passare” [17]. I briganti tristemente noti per le loro audaci azioni e  con i quali trattare, erano ventisette,  tra essi figuravano Domenico e Gio. Andrea  da  Poleca   e Marcello di Capo di Vena. Queste due frazioni, che ora si chiamano Polica Vecchia  e Vena,  praticamente disabitate e sommerse dai boschi, erano poste sulla antica  e importante strada  che  da Comunanza portava ad Ascoli  (prima dell’apertura del traforo di Croce di Casale nel XX secolo), poco lontano dalla frazione Tavernelle,  già famoso  covo  ai tempi di Masio della Glierosa.

Cap.  IV La lotta di Sisto V

Con la Bolla Pontificia del 14 novembre 1586, SISTO V, ossia il montaltese Felice Peretti, eletto al Soglio Pontificio il 24 aprile 1585,  costituisce la Diocesi di Montalto, sua “Patria carissima”, così che Comunanza e Montemonaco appartenenti alla Diocesi di Fermo e Montelparo, Force e Rotella della Diocesi Nullis Farfensis   passano alla nuova Diocesi di Montalto.

Il pugno di ferro usato immediatamente da Sisto V verso il brigantaggio che imperversava  nelle “sue” terre, rivelò il suo modo rude e deciso che lo porterà alla storia. Con la Bolla del 1 luglio I585 “Hoc nostri” promulga una vera e propria dichiarazione di guerra agli “Homicidis, latronibus, varium grassatoribus, raptoribus, incendiariis, sicariis... aliisque similibus notoriis delinquentibus et facinorosis hominibus”[18].

Nel breve periodo del suo pontificato, il brigantaggio nelle campagne romane ebbe una brusca frenata, sicché il 18 settembre del 1586 un cronista  romano annota: “Sono esposte più teste di banditi a Castel  S. Angelo che cocomeri al mercato[19].

Il 10 agosto 1590, il brigantaggio romano poteva dirsi praticamente debellato.

Ma, tra i boschi dell’ultimo lembo della sua giovane Diocesi, il pugno di ferro di Papa Peretti, non sortì effetto.

Il primo Vescovo di Montalto Mons. Paolo Emilio Giovannini, ebbe non poche difficoltà  nell’intraprendere le visite Pastorali “Esse non furono mai complete da abbracciare l’intero territorio della Diocesi , furono discontinue e mai arrivarono fino a Comunanza , in quanto, nel 1590, arrivò fino a Montelparo omettendo le più lontane e impervie perché “perigliose”, come Force, Montemonaco  e Comunanza” [20] e in tal caso il Vescovo annota: ” Ob exulum sicariorum et latronum incursiones” [21].

La  Città di Ascoli,  ricevette nel 1586 forti ammonizioni per la noncuranza con cui portava avanti la lotta contro i briganti, sicché il 12 novembre 1587, G. Paolucci nel Consiglio degli Antiani annunziava con enfasi: “Deo gratias, non ci son più banniti per queste banne, né per lo Presidato” [22].

Il 3 maggio 1590, giunse al Governatore di Ascoli, una implorante missiva dei Massari di Acquasanta, che si dicevano vessati da Pierconte di  Pietralta ed altri banditi che pretendevano viveri sotto la minaccia delle armi. La lettera non ebbe risposta.  Intanto, indisturbato, Pierconte si spostava con i suoi uomini più  a nord e nel mese di giugno, entrava  a Villa Gesso di Comunanza (che pur apparteneva in quel momento al Duca d’Atri),  la saccheggiava   tornando a  Pietralta con 12 some  [23]  di bottino[24].

Cap. V.  Marco Sciarra

Dal 1586, nel territorio che va da Montegallo a Venarotta e  alla zona montana di Comunanza,  imperversava  il “Famusissimus caput bannitorum”  Marco Sciarra, così chiamato perché di temperamento rissoso, proveniente da Villa S. Maria negli Abruzzi. Egli,  aveva dietro di sé  un grande numero di “adepti” che tentavano le imprese più audaci,  tanto che, il 18 luglio 1590, apparve a Roma un  “Avviso”:  “Sabato comparvero presso Fara Sabina, 18 miglia da Roma, 600 banditi ben armati provenienti da Aquila e dalle Marche, uno dei capi, Marco Sciarra, si fa chiamare “Flagellum Dei et commissarius missus a Deo contra usurarios” ; pone taglie, prende grano ai ricchi e lo divide fra i poveri” [25].  Questo pericoloso avvicinamento a Roma da parte dei briganti dell’entroterra Piceno,  coincide, non a caso,  con un allentamento della lotta contro i “latronibus” dovuta all’aggravamento della malattia del determinato Pontefice e che, il 27 agosto dello stesso anno, lo porterà alla morte.

Dopo la scomparsa di Sisto V, il brigantaggio  aveva assunto un aspetto nettamente più cruento.  Ciò che era stato sopito, se pur in parte, negli anni del suo pontificato, si ridestò. Una delle cause era una chiara difficoltà a mantenere una situazione sempre in tensione ma senza un reale cambiamento per le precarie condizioni di una popolazione già provata da carestie e epidemie, guerre e soprusi. Si consideri, che il 1590 fu l’anno della grande carestia e il ridestarsi del brigantaggio fu una risposta forte alla miseria.  Nel nostro territorio di briganti se ne  contavano più di novecento “Et tanto quanto fecero non se potria contare” [26].

Un altro motivo di questa improvvisa recrudescenza banditesca, era l’impossibilità dei Papi  Urbano VII, Gregorio XIV, Innocenzo IX che si susseguirono nel giro di due anni, e dell’altro più duraturo Clemente VIII, di continuare l’energico, sia pur sanguinoso,  programma del loro determinato predecessore.

Con l’intento di stanare Marco Sciarra, dal Regno di Napoli, fu inviato il Capitano di indubbio valore Carlo Spinelli con le sue truppe di 4000 uomini tra fanti e cavalieri, era il 1590. Il Commissario Regio Pietro Antonio Mastrillo di stanza alla fortezza di  Civitella del Tronto,  spedisce molte missive nei paesi interessati al brigantaggio,  informando che le truppe dello Spinelli erano pronte a dare addosso ai banditi in tutto il territorio, inoltre chiedeva l’aiuto di giovani esperti che facessero da guida nelle zone montane.  Il 14 novembre  dello stesso anno  il Reggente di Comunanza, che non a caso era Annibale della famiglia dei Nobili,  comunica con una missiva agli illustrissimi  Priori di Ascoli,  che dal giorno di domenica  egli si trova  “co le mie genti in una villa di Monte Gallo chiamata Uscierni, in ordine”,  ma fattasi sera, per paura di imboscate si tirò innanzi fino a Villa Gesso e la mattina dopo tornò sul posto  per incontrare i Signori Mastrillo e Carlo Spinelli “e da noi gli fu data tutta quella informatione che si poteva” , al Nobili  fu comandato  di andare con i Corsi alla volta di S. Maria dell’Aquasanta,  ma essendo fuori dalla sua giurisdizione,  si ritirò e restò nella zona ad esso assegnata “dove hora mi trovo a tener in ordine tutta questa gente che arriva quasi a 200 archibuggi e 100 arme su Haste”,  e informa che egli è in ordine, pronto all’attacco in qualsiasi momento [27].

A quanto risulta dai documenti, le azioni dello Spinelli furono  vane e pericolose in quanto egli rischiò più volte la vita, anche per via del suo riconoscibile cavallo bianco, e non riuscì a catturare l’astuto  Marco Sciarra  che invece fu segnalato nelle nostre montagne. Infatti, il 25 aprile 1591, il Cardinale Paolo Emilio Sfrondati da Roma (ambizioso nipote di Niccolò Sfrondati, Papa Gregorio XIV), in una perentoria missiva, ordina agli Anziani di Ascoli  di mobilitare tutti i  paesi per sterminare la banda di Marco Sciarra che stava tornando nelle montagne ascolane “Molto Mag.ci S.S.ri come fratelli. S’intende che Marco Sciarra con gl’altri banditi suoi complici dissegna di ritirarsi di novo ne le montagne di Ascoli et quivi piantar la Rocca di tutti li loro latrocinii et sceleraggini,  pertanto N. S.re  ordina che vi mettiate tutti in armi et che vi preparate, non solo a la espulsione ma al totale esterminio di questa mala razza, et vuole che si faccia davero et non con simulatione, altrimenti S. B.ne farà castigar  severissimamente tutti quelli che haveranno mancato al debito loro. Arrivarà fra tanto Mons. de la Corbara vostro novo Governatore, prelato di valore et di prudentia, che vi sarà capo in tutti li pericoli. Da la banda del Regno havrete bonissima corrispondenza da li soldati Regii et appresso verrà l’Arcivescovo di Avignone Mons. Marcolino et il s.or Virginio Orsino da Lamentana con forze et animo tali che si spera liberaranno una volta voi et Noi da questa indignissima molestia di tanti ladroni. Spedisco questo corriero à posta per farvi avvertiti in tempo, però non mancate che mal beato chi mancarà. Et Dio vi guardi da mali.      Di Roma a li 25 di Aprile 159. Di VV. SS.rie come fratello.  Il Card. Sfrondato.”[28].

Nella relazione del 7 novembre 1592, il Mons. Giovannini, Vescovo di Montalto,  informa Roma di ciò che sta capitando nella sua Diocesi e scrive: “Toto hoc triennio grassantibus in ea regione latronibus totam dioeceim visitare mihi nunquam licui; vicinora tantum loca visitavi” [24]. Nei paesi pericolosi, il Vescovo era arrivato con lettere, inviati,  private esortazioni e ammonizioni, cercando di far sentire il più possibile la sua presenza ma, purtroppo è costretto ad ammettere che dei nove centri abitati della sua Diocesi, in sei, i più grandi degli altri, “Dicti latrones intrarunt;  cedibus, rapinis, stupris et quocumque nefario scelere omnia fodantes[29]. Nella stessa relazione il Vescovo parla di un suo sfortunato incontro con i briganti, che, spintisi fino alle porte del Presidiato di Montalto, lo catturarono, lo spogliarono dei beni e per la liberazione  fu costretto a  contrarre un debito di 2000 scudi [30]; in seguito elenca: “Oppida quae penetrarunt, heac sunt: Mons Monacus, Mons Elparus, Mons de Novem, Communantia,  Porcula et Rotella “[31].

Un relativo momento di pace, si ebbe con l’uccisione  di  Marco Sciarra,  da parte del  brigante Brandimarte di  Porchia con la complicità di Battistello da Montevidone;  quest’ultimo, per questa azione  “liberatrice”, ebbe il perdono per se  e  per altri tredici banditi [32].

Ma il pericolo brigantaggio non fu del tutto scongiurato, allorché Giovannini nella relazione della Visita ad Limine del 1595, pone alla Santa Sede la problematica situazione della sua Diocesi, posta a cavallo tra lo stato Pontificio  ed il Regno di Napoli e quindi, “que horum sicariorum incursionibus et rapinis exposita[33]. Il Vescovo enunciava  inoltre, la segreta connivenza nei riguardi dei banditi da parte di alcuni potenti,  che rendeva il suo compito estremamente pericoloso,  temendo per l’incolumità  propria e  dei  suoi prelati.

Il suo timore non si è rivelato infondato. Infatti, il Procuratore, il Segretario, e l’Esecutore della Curia Vescovile, partiti alla volta di Montemonaco  “Ad cognoscenda quaedam clericum crimina [34], per fare un’inchiesta su certi reati contro i chierici,  passati pressoché indenni per la strada di Comunanza, furono pero bloccati in una frazione montana, fatti prigionieri, maltrattati per giorni e costretti a pagare un riscatto per la loro liberazione.

La prima volta che un Vescovo di Montalto visiterà “CASTRUM COMUNANTHIE” sarà solo con Paolo Orsini, nel 1609.

Cap. VI Le milizie Corse

L’arrivo delle milizie della Corsica nelle terre picene, risale al luglio del 1583. Il primo a giungere fu  il Capitano Salvatore d’Ajaccio con 150 soldati, mandati dal Papa Gregorio XIII  allo scopo di tenere a freno le lotte fra fazioni. Essi furono preceduti da una missiva del Generale della Santa Chiesa nella Marca di Ancona, l’ordine era perentorio: “Tutte le città, terre e Castelli, dovevano fornire, a prezzo onesto, i viveri richiesti e dare gratuitamente alloggiamento, aceto, olio, sale, lume, legna et altri utensili” [35] Nel periodo del pontificato di  Sisto V, le milizie non furono impiegate nella cruenta repressione del brigantaggio, ma, con l’arrivo nel 1590 di Gregorio XIV (Niccolò Sfrondati) e Clemente VIII (Ippolito Aldobrandini da Fano), esse, particolarmente agguerrite e temerarie, furono spedite nei paesi a rischio brigantaggio.

La negativa fama dei soldati corsi, nelle quali fila vi erano anche elementi con passato particolarmente burrascoso,  preoccuparono il popolo piceno che, senza dubbio, dopo le infinite lotte tra fazioni, non aveva necessità della presenza di questi elementi turbolenti, estremamente rissosi e che imbracciavano le armi per un’inezia. Il Governatore di Ascoli, presso il Consiglio, prepose di assoldare contro i briganti “un paio di Bargelli e cento sbirri” [36].  La proposta fu bocciata a suon di grida perché la fama di questi uomini d’arme era peggiore degli stessi banditi. Dice il De Huebner “Le bande altrochè meglio vestite e vettovagliate, avevano maggiori riguardi verso le popolazioni rurali che non le soldatesche regolari,  le quali erano il terrore dei paesani. Venivano chiamati  - gli ammazzatori -  e si paventavano più questi difensori che i perturbatori dell’ordine pubblico” [37].

Il comportamento dei soldati Corsi, era tutt’altro che edificante, che quanto a rubare superavano i banditi stessi, allorché furono considerati  “Cum maxima universali nostra jactura et damno” [38]. La Congregazione del Presidato di Montalto scrive alla Sacra Consulta: ”Che si supplichi Sua Beat.ne Ill.mi SS.ri della Sacra Consulta che se degnino levarci questi Soldati Corsi, poi che non fanno mai una fattione honorata contra banditi, secondo l’intentione di SS.ri Superiori, ma solo attendono à far tuttavia insolenzie  grandiss.e  disshonestà  peggiori per tutti i luoghi dove alloggiano e dove vanno” [39].

Dal 1590, un contingente di Corsi, con a capo  Flaminio Giustiniani, Legato della Marca, creato Vicario Generale   e Flaminio Delfini,  era alloggiato dentro le mura di Comunanza e, secondo l’Abate Colucci [40] i Corsi furono presenti fino al 1676, ed il loro quartier generale era nella piccola piazza oltre il ponte, ora piazza S. Caterina. Dopo la  definitiva partenza dei Corsi,  il Governo di Ascoli spedirà  a Comunanza una pattuglia di soldati tre volte all’anno in occasione di importanti fiere nei mesi di maggio, agosto e per quella di S. Caterina il 26 novembre. Sicuramente fino al 1794.

La convivenza con i soldati Corsi, non era sempre pacifica,  e la loro presenza era particolarmente dispendiosa per ogni Comunità. La popolazione doveva fornire loro, a prezzo onesto,  tutto quello che occorreva, naturalmente, da parte dei Corsi non mancavano gli eccessi.  Ogni singola Comunità e Villa, stilava una lista di spese fatte per i suddetti soldati “Nella persecutione dei banditi”,  per essere risarciti  dalla S. Chiesa, e la inviavano ad Ascoli “Per mano di Francesco Rondinelli Comp.a et Comm.o per ordine dell’Ill.mo Cardinale M. Cemeza, Legato”

Il dettagliato elenco contenente “Interessi oner perdita di robbe patita dalla Comunità della Communanza per alloggiare de soldati di N.S. sotto il Sig. Flaminio Giustiniani et Sig. Flaminio Delfini”, compilato  da Annibale Nobili, passato  poi in mano  a Sciarra Guidi, Deputato alla mezzina, di cui Comunanza faceva parte con Vindola, Castel S. Pietro, Vallerano, Portella e Venarotta. Il primo elenco è del 1590  e  aggiornato fino al 1597.   Nel 1590, la Comunità aveva speso 10 scudi per paglia e fieno dati ai cavalli di Flaminio Giustiniani. In seguito  accusava perdita di altra biada servita per sfamare i sessanta cavalli del Giustiniani  che si fermò a Comunanza venti volte in tre mesi; biada che la comunità ha dovuto acquistare “per ordine delli Signori padroni”  e per questo chiedeva 62.50 scudi.  I comunanzesi, “per servigio dei sopraddetti signori”  , hanno dovuto cedere venti carriaggi e ne chiedevano il risarcimento. Per la biada data ai cavalli di Flaminio Delfini  tutte le volte che  stazionava a Comunanza si chiedeva 10 scudi.  Poi, oltre a sfamare i cavalli, la popolazione  doveva dare olio e aceto ai soldati, per questo chiedevano 3 scudi.  Nello stesso anno i comunanzesi si sono trovati costretti a soccorrere  i soldati che “andavano contra i banditi” nelle montagne di Montefortino, portando loro pane e vino e, precisa il Nobili,  “senza esser pagato alcuna cosa”  e chiede la somma di 25 scudi.  Il Nobili chiede anche il risarcimento per aver dato ai soldato del Capitano Fabio Gubernat e da Terni, “polvere et piombo per scuta 7.50”.  I Corsi che alloggiavano a Comunanza, erano a completa spesa della Comunità e ogni sei mesi, “secondo il quantimetro fatto dalli Signori padroni”,  la comunità veniva  risarcita di scudi 21.  Esisteva un collegamento tra  i corsi che alloggiavano nel nostro paese e quelli di stanza in località S. Maria di Acquasanta Terme, dal momento che gli abitanti di Comunanza  sono stati costretti a mandare un numero imprecisato di letti  in detta località, per scudi 16.75, inoltre, il Nobili scrive  di vedere se sono mai arrivati.  Nel 1595,  si chiede risarcimento per biada e messi mandati ad Ascoli. Nel 1596, si denuncia la perdita di messi  mandati, dal Giustiniani, presso altre località  dove erano presenti i soldati. Nel 1597, Comunanza richiede risarcimento  di 3.22 scudi per la biada data  al Capitano Domenico Corso ed al fratello  ed altre messi volute  dal Giustiniani e dal Capitano  Corso Niccola, per scudi 26.15  e 14.11.

E’ da precisare, che se la biada richiesta, come abbiamo visto in grande quantità,  ad un certo punto  finiva, la Comunità doveva  tagliare qualsiasi tipo di raccolto per sfamare i cavalli,  ancora una volta con grave danno alla popolazione. Per questo, sempre nel 1597, Comunanza chiede 40 scudi per la perdita del raccolto  e ancora per messi mandate ad Ascoli per scudi 35 e 144.11.

In fondo alla lista abbiamo “Interessi patiti , come si vede, per molestia data da diversi Capi che importuno tutti”,  che il Nobili ha inserito, ma senza la pur minima speranza di vedere la sua popolazione risarcita da simili danni. Per arricchire lo sciagurato quadro generale  delle condizioni di Comunanza,  dopo il totale delle spese che è di 1002,48 scudi,  si parla di “case abbruciate dai Corsi[41].

Nelle zone montane, in qualche modo preservate dai briganti, le truppe pontificie arrecarono gravi danni. Essi infierivano sulla popolazione con distruzione di interi paesi sospettati di connivenza con i briganti,  come nel caso di Pietralta,  fatto “sfasciare” da Flaminio Giustiniani [42] o come nel caso della montagna di Comunanza dove gli abitanti, ignorando del tutto la Bolla Pontificia [43], non aiutavano a scovare i briganti ma li  difendevano strenuamente, questi soldati infierirono maggiormente  con ruberie e uccisioni  di  animali da latte utili per il sostentamento di una intera famiglia. Secondo il Calcolo delle spese, Vindola subì il danno maggiore. Le richieste della  Villa sono:  risarcimento per “perdita fatta nella carne , cacio, olio e legnia e altro, dato su due anni incirca, per scudi 200” . anche Vindola doveva mandare erba e biade in genere per i cavalli dei Corsi di stanza a S. Maria di Acquasanta  e questo per tre anni di seguito.  Inoltre, chiede risarcimento per le coltivazioni che hanno dovuto tagliare per dar da mangiare ai cavalli dei Corsi per some 10, e anche per le coltivazioni calpestate dagli stessi cavalli.  Per le spese in genere fatte da alcuni soldati che pretendevano continuamente cibo.  Spese per paglia e fieno portati ad Ascoli.  Risarcimento di 1000 scudi per “Abbrugiamenti di quindici case fatti dai soldati Corsi”, per un totale di 3600 scudi[44]. Altre ville di Comunanza subirono danni:  nel Calculo delle spese patite dal contado  di Ascoli per la lotta contro i banditi,  a Castelfiorito spettano  12.32 paoli,  ad Illice e Gerosa 12.64 paoli, a Vindola 19,64 paoli e  a Comunanza spettano 12,.4 paoli[45].

Nonostante tutto, dentro le mura, dove sicuramente arrivava attutito l’eco delle ingiustizie e dei soprusi patiti dagli abitanti delle frazioni montane e della loro quotidiana lotta per la sopravvivenza, tra i benestanti comunanzesi ed i soldati Corsi, si era creato un eccellente rapporto ed una tranquilla convivenza. Il Corso Patrizio di Lorenzino, abitante a Comunanza, nell’ottobre 1610  fa battezzare presso la Chiesa di S. Caterina suo figlio Domitrio, che aveva come madrina  Donna Felicita  moglie di Giovanni d’Antonio.  Il 13 gennaio 1613, tale Stefanino Corso è padrino  di Roggiero figlio di Paraninfo Ferrari  della Comunanza.  Nell’agosto del 1618, Lorenzo, figlio del Caporale Corso Ciavattone di Bonifatio d’Ampignano e della sua consorte donna Venera di Jesi, ha come padrini di battesimo Astorre Ferrari  e Donna Ciseria degli Antonini .Nel 1620, Francesca, moglie di Stefanino Corso, assieme al Corso Damiano di Villa Tolla, sono padrini di Maria, figlia di Benedetto della Comunanza.   Nel 1623 Giacomo, figlio di Domenico Ferrari, ha come padrino  tale Andrea Corso.  Nel 1631, Carlo Catalini  Corso, porta a battezzare sua figlia Caterina (forse così chiamata in onore della Santa Patrona di Comunanza) ed ha l’onore di avere come madrina Donna Cornelia moglie di Anzideo Travaglia.  Nel corso degli anni, vediamo apparire più volte come madrina di piccoli comunanzesi, Donna Francesca moglie di Stefanino Corso[46]. Inoltre, nel Liber Mortuorum   troviamo “Martia, moglie derelitta del Generale Cosimo Corso[47].

Il fenomeno del brigantaggio nel nostro territorio, stando ai documenti, sembrerebbe sopito già dalla prima metà del XVIII secolo.

Ma,  nonostante  questo paese  si allarghi, costruisca nuovi edifici pubblici,  e con essi anche un teatro , specchio di una società in evoluzione, e di un paese in pace, in occasione di grandi incontri di popolo come erano allora le fiere, i soldati Corsi, di stanza ad Ascoli, tornavano perché, chissà, per l’occasione, dalla fitta boscaglia di Collechiaro potesse uscire allo scoperto qualche nostalgico della “COMMUNANTHIA LATRONUM”.

STEFANIA CESPI

NOTE

[1] Augusto Vittori, “Montemonaco nel regno della Sibilla Appenninica”, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1938. P.53.

[2] Pietro Ferranti, “Memorie Storiche della città di Amandola” Codice diplomatico, 1029 bis, 22 dic. 1549,  Maroni 1985,  vol.4,p 351.

[3] Pietro Ferranti, “Memorie storiche della città di Amandola”, vol.4, Codice Diplomatico n°1029 bis,  Maroni 1985. P.351. Nello stesso Bando leggiamo: “Promettemo et ordinamo che qualunque Università e particolar persone darà ne le nostre forze d. Federico bannito  (…) vivo guadagnarà la remissione di duodeci banniti a loro eletti (…) e 500 scudi d’oro  (…) Ma occidendolo e dandolo occiso (…) 6 banniti, (…) e 200 scudi.”

[4] Scrive il Colucci: “Sopra l’arco della porta di una casa situata entro il paese,  si fa mensione di un Masino Nobili con questa legenda: 1563 D. Masinus Nobili reattavit” – Colucci, Op. Cit., cap.IV, p.6.  Tradotto alla lettera: Il Capitano Masino dei Nobili di Monte Pasillo, ha  restaurato. Ci piace pensare che questa data non stia  a ricordare il restauro di una casa, bensì per la definitiva sistemazione della infelice situazione di Comunanza, finalmente liberata, per mano di Masino,  dalla piaga del  brigantaggio.

[5] P. Ferranti, Op. cit. vol. I, P. 306.

[6] Luigi Mannocchi, Memorie Storiche e Statistiche di Petritoli, Stab. Tip. Bacher, Fermo 1889, p. 21;

[7] P. Ferranti, Op. Cit., vol.I,  P.308.

[8] Ivi, p. 312.

[9] “Per debito dell’ufficio nostro comandiamo a qualsiasi persona (…) che non ardisca (…) accettare in casa , ne conversare con Gio. Antonio Manardo et Morgante et Cecco suoi figliuoli, sotto pena di confiscatione di tutti i loro beni, et altre pene corporali ad arbitrio nostro. Ma diamo e promettiamo per giuste cause (…), due nominationi per premio a ciascuno che li darà vivi in mano alla Corte (…) et a chi lo consegnasse morto una nominatione oltre la ordinaria del bando. Mettendi pena alla comunità se ardirà più accettarli e lassarli praticare, di   scudi 4000 d’oro (…). Et tutto per le cause , che sono notorie per luogo e per debito della giustizia. Si che ciascuno si guardi di non errare. Vinc. Porticus Vice-Leg. Die 9 augusti 1565, Die 12 Augusti 1565.“P. Ferranti, Op. Cit. vol. 3, cap. XXI, p. 317.

[10] Ivi

[11] Nota: Scrive il Colucci: “Nicola Brocherio Nobili, uomo, per quanto consta da pubbliche scritture, di gran maneggio e di gran mente” -  Colucci, Op. Cit. Tomo XXI, Cap. IV. P.6. Nella Chiesa di S. Caterina d’Alessandria d’Egitto, quella costruita sulla piazza omonima e demolita alla fine del XVIII secolo, sotto all’altare del S.S. Crocifisso, proprietà del nobile Brocherio e Rettore suo figlio Luzio, nella sua lapide sepolcrale, ora conservata al Museo d’Arte Sacra, si leggono i seguenti versi: DUM VIXI, MORTALIS ERAM BROCHERIUS, IPSED POSTQUAM, PERII MORS MIHI VITA FUIT. CUR FLETIS? VITAM QUAM MORTEM, DICTIS ERGOCUM NUMQUAM POSSIT, VITA BEATA MORI.

[12] Cfr. P.Ferranti, Op.cit. p.312.

[13] Cfr. Giuseppe Fabiani, Ascoli nel cinquecento, vol II , p.59.

[14] Cfr. G. Crocetti, Istituzioni monastiche dei secoli XI e XII ai piè dei Sibillini, Il Segno Editore, Verona 1995, p. 277, 278.

[15] Archivio di Stato di Ascoli Piceno, Archivio Comunale di Ascoli Piceno, Busta XI, fascicolo III  “Discordie”.

[16] Francesco Antonio Marcucci, Saggio delle Cose Ascolane e dé Vescovi di Ascoli nel Piceno, Teramo 1776, appendice, p. CCCCXIX.

[17] P. Ferranti, Op. Cit., Codice Diplomatico n.1035, vol. 4, p. 356.

[18] Bollarium Romanum VIII, Torino 1863, p.585-591.

[19] G. Sanità, A. Muccioli, Sisto V e il brigantaggio nello Stato Pontificio, Ed. Pubblicità Progresso, Roma  1967,   p.62.

[20] Giovanni Papa, Sisto V e la Diocesi di Montalto, Maroni 1985, p.225.

[21] Ivi.

[22] G. Fabiani, Op. Cit., Vol. I, p. 367.

[23] Antica misura per prodotti aridi o liquidi, equivalente al carico di una bestia da soma  (mulo o asino) fino ad un quintale e mezzo.

[24] cfr. Fabiani,  vol I, p. 384.

[25] G. Sanità, A. Muccioli  Sisto V e il brigantaggio nello Stato Pontificio, Ed. Pubblicità Progresso, Roma 1967, p.64.

[26] Fabiani, Op. cit.,  vol. I, p 386.

[27] S.A. AS.C.A.P., Busta XI, fasc. II, Memorie contro i banditi, dice la diligenza da lui fatta in persecutione dei banditi, Annibale Nobili li 14 novembre 1590”.

[28] A.S.A. A.S.C.A.P., Busta XI, Fasc. II, Memorie contro i banditi.

[29] G.Papa, Op.cit., p.264.

[30] Ivi.

[31] Relazione Visita ad Limina, IVI, p.265.

[32] IVI.

[33] Cfr. G. Fabiani vol. II, p.79.

[34] G. Papa Op. cit. , p.271.

[35] Fabiani, Op. cit.  vol.II, p. 165; Registrum C. c.45 v.)

[36] Ivi.

[37] Jos A. De Huebner, De Sixte V d’après des coorispondances diplomatiques inédites tirérs des Archives d’état du Vatican, de Simanca, de Venice,  de Paris, de Vienne   et Florence,   Parigi 1887,  vol. I  p. 219.

[38] Atti del Convegno di studi, Montalto e il Piceno in età sistina, Raffaele Tassotti, Banditismo a Montalto da Sisto V al 1600, D’Auria Editrice, 1992.

[39] Archivio Storico di Montalto, Die ultima novembris1605, C. 32 v – 33. In: R. Tassotti, ivi, p. 210.

[40] Cfr. Giuseppe Colucci, Delle Antichità Picene, Tomo XXV, Dai torchi dell’Autore, Fermo 1794.

[41] A.S.A., Archivio Storico Comunale di Ascoli Piceno, Busta XI, Fasc. II, Calculo delle spese..…, 1597.

[42] A.S.A., Archivio Storico Comunale di Ascoli Piceno, Busta XI, Fasc.I

[43] Nella Bolla Pontificia del 5 luglio 1585, Papa Sisto V scriveva  che non appena comparivano i briganti, ogni paese doveva suonare a stormo le campane e dar loro addosso con l’aiuto dei paesi vicini. Chiunque aiutava i briganti direttamente, o anche indirettamente  senza reagire ai loro soprusi, erano considerati alla stregua di essi  ed a loro spettavano le stesse punizioni. Inoltre, le comunità che si dimostravano deboli, erano colpite con l’ammenda di 200 ducati e con il risarcimento dei danni fatti dal fuorilegge.   Bollarium RomanumOp. cit.

[44] A.S.A, ASCAP, Busta XI, Fasc. I,  I soldati corsi, che erano i peggiori,  bruciarono quindici case a Vindola e i danni arrecati ai campi dai cavalli non si contano: Fabiani, Op. cit., p.363.

[45] ASA, ASCAP, Libro della spartenza fata al contado per le spese fatte d’la città contro banditi, A.A .Paoli X.P.DO 1597Busta XII, fascicolo II

[46] Cfr. Archivio Parrocchia di S. Caterina d’Alessandria d’Egitto in Comunanza. Estratto cavato da un libretto vecchio ruinato, di tutti i battezzanti in esso esistenti, fedelmente da Giuseppe Caferri sagrestano, dal 1601 al 1634, del Parroco di S. Maria a Terme D. Antonio Giannucci.

[47] Archivio Parrocchia di S. Caterina d’Alessandria d’Egitto in Comunanza,  Liber Mortuorum 1675 - 1742 , Libro dei morti della Chiesa Parrocchiale di S. Antonio della Comunanza.

 

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