Martedì, 19 Marzo 2024

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Fra Felice a Venezia (1556 - 1560)

foto04 54 800 600 801556 mag. Il Capitolo di Brescia nomina Fra Felice Reggente dello Studio di Venezia per tre anni.

  • 30 giu. Fra Peretti prende possesso della sua Reggenza insieme al nuovo Lettore dei Sacri Canoni il Padre Maestro Antonio Posio da Montalcino (ex suo allievo nel periodo senese). Una lettera, scritta da Fra Felice a Sigismondo Bozio, segretario del Cardinal Protettore, del 4 luglio ne attesta la data:“Arriva i a Venezia alli 30 di Iunio a salvamento per la grazia di Dio, ed sono stato assai ben veduto da questi Padri...”.
  •  Il clima all'interno del Convento è di netta avversione nei confronti del nuovo Reggente, infatti tre confratelli capeggiati dal bergamasco Andrea Micheli, abituati ad un'eccessiva rilassatezza dei costumi, mal ne sopportavano la serietà e la riservatezza.
  • Essendo, costoro, molto influenti nei vari ambienti religiosi e sociali cercano di mettere in cattiva luce il Peretti esaltando invece l'ex allievo Posio, arrivando a richiedere la Reggenza per quest'ultimo che per non far torto al suo maestro si rende non disponibile se non dopo un espresso conferimento del Padre Generale e del Procuratore dell'Ordine. Il Posio comunica la cosa al Peretti che preferisce aspettare le decisioni del Generale lontano da Venezia.

  • 1° sett. Lascia Venezia per Rovigo indi raggiunge Ferrara. La presenza di Fra Felice è attestata da una lettera spedita da questa città il 16 settembre allorché scrive al Bozio “Quando vidi le cose di Venezia andar per la mala via, mi ritirai a Rovigo...”.

1557 17 gen. Le indagini svolte dal Cardinal Protettore e dal Padre Generale Giulio Magnani da Piacenza rendono piena giustizia al Peretti che viene riconfermato nel suo incarico e in detta data assume anche l'incarico di Inquisitore .
Grazie all'autorità indiscussa del Padre generale e del Procuratore Fra Peretti rientra a Venezia, in un editto del S. Officio così si dichiara:
Noi fra Felice Peretti da Montalto de' Minori Conventuali, Maestro in Sacra Teologia, Provincial d'Ungheria, Reggente del Convento della gran casa di Venezia , e nel Veneto Dominio contro l'eretical nequizia Inquisitor deputato dalla Santa Sede” (l'inquisitore era al di sopra della giurisdizione ecclesiastica e, in materia di fede, di quella civile).
Nel periodo quaresimale (il giorno di Pasqua è il 18 aprile) predica tre giorni la settimana nella Chiesa di Santa Caterina, mentre i restanti presiede il tribunale inquisitorio.
Riesce ad operare con una certa tranquillità tanto che il 28 del mese di settembre così scrive al Bozio:
Per bontà della Mestà divina si son tranquillati, ed sedati i tumulti..Le cose del S'Uffizio vanno prosperando, ed ancorché usiamo ogni diligenza... non trovamo, se non cose vecchie, così nelli Religiosi, come ne' secolari....Altro non me occorre...”.

Per circa due annui non ha problemi con i confratelli suddetti riuscendo a redigere il Regolamento del Santo Tribunale e a nominare diversi suoi rappresentanti:

  • 19 nov. Nomina Vicario e Commissario di tutta la Diocesi di Concordia il Padre Maestro Francesco Pinzi da Portoguaro
  • 14 mag. Nomina Commissario di Giustinopoli (Capodistria) il Padre Maestro Francesco Rosella di Ascoli e nella Diocesi di Rovigo il veneziano Padre Maestro Cornelio Divo.

1558 Nella Quaresima (il giorno di Pasqua è il 10 aprile) predica in Sant'Apostolo in Venezia e quattro giorni la settimana in Santa Caterina.

  • Mag. Promosse alla laurea dottorale quattro suoi discepoli con l'autorità del“Cavaliero Centini” a Venezia. 

1559 Predica solo tre giorni la settimana in Santa Caterina dedicandosi agli affari del Tribunale del Sant' Offizio nominando il

  • 13 apr. Inquisitore di Concordia il P.M. Valentino da Cingoli, mentre il P.M. Matteo da Bergamo lo diventava di tutta la Diocesi di Adria e di tutto il Polesine, oltre ad altri personaggi non meglio precisati.
    Apr. Fra Felice con il titolo di Commissario del Capitolo della Provincia Veneta fa nominare il P.M. Cornelio Divo, proposto dal Cardinal Protettore e dal Padre Generale, Ministro Provinciale e contemporaneamente Guardiano del Convento di Venezia l'infido Andrea Micheli adducendo la motivazione di un suo pentimento e di “render bene per male”. Questa generosità viene molto ammirata a Roma e il Peretti chiede per lui l'esser nominato Provinciale nel Capitolo della Marca, cosa che per questioni di tempo non si avvera.
    Ago. Il Peretti si trova al centro di un “gran tumulto” com' egli stesso scrive nell'agosto del 1559, lasciando Venezia in concomitanza con la morte di Papa Paolo IV: Nel 1550 il P.M. Lismanini, chiamato alla Corte del Padre Generale a Roma, cede due sue stanze poste nel convento veneziano ad un secolare con il beneplacito del Generale stesso che stabilisce anche una sorta di ereditarietà, con la clausola che esse servissero per ritiri spirituali o altri fini di natura religiosa. Cosa confermata anche da un Breve del 3 agosto 1550. Ma nel tempo questa clausola viene abbandonata e le due stanze diventano sedi di festini e luoghi dove si giocava a carte. Il Micheli e i suoi accoliti ne sono assidui frequentatori, ovviamente il Peretti, non potendo sopportare questo abuso fa ottenere dal Padre Generale un Breve pontificio il “Sedis Apostolicae Providentia” del 13 gennaio 1559 con il quale si revoca la concessione delle stanze e si vede affidare dai Patriarchi di Venezia e di Aquileia l'incombenza di trattare e regolare la questione. Il successo riportato gli crea un'ostilità palese e quindi decide di allontanarsi da Venezia recandosi a Roma per conferire con il Cardinal Protettore che era impegnato nel Conclave e quindi racconta l'accaduto al segretario Bozio.
    Nel novembre il Peretti è a Montalto intenzionato a non ritornare più a Venezia, ma il nuovo Papa Pio IV decide di rimandarlo nuovamente nella città lagunare con più ampi poteri.

1560 22 feb. con un breve di Pio IV Fra Felice Peretti ritorna a Venezia e vi resta fino al mese di giugno, indi sarà richiamato a Roma. L'accoglienza del Padre Guardiano è fredda concedendogli di soggiornare solo tre giorni nel Convento, al che Fra Felice mostra il Breve dichiarandosi impossibilitato a lasciare Venezia senza un ordine papale. Il Micheli ricomincia a screditare il Peretti in tutti gli ambienti, tanto che il Senato con i suoi ambasciatori a Roma ne richiede la rimozione. Il Provinciale Divo interviene perorando la causa di Fra Felice presso il Senato, ma senza risultato per cui scrive al Segretario del Cardinale questa missiva:
Io havevo concetto nell'animo mio contento incredibile per il ritorno del mio Padre Montalto. Ma quando son ritornato da alcuni publici negotij in Venetia, ho ritrovato, che quest' eccelso Consiglio de' Diece ha determinato altrimenti, et io non ne posso, ne devo parlare, finché non me se presenti altra occasione. O sia per questo successo, o per naturale malignità d'animo, Maestro Andrea Bergamasco, Guardiano qui in Venetia, fatto per opera del Montalto, et Maestro Antonio Zotto son fatti così...che ardiscono mettermi alle mani con questa nobiltà, come io mi contrapponga alle ordinationi sue, et favorisca il Montalto. Et più volte me hanno levato sopra calunnie di mala conditione, et se spargono nel secolo a mio biasimo; et se trovano pure alcuni che li prestano fede. Però supplico con ogni debita riverenza V.S. Per l'amore, che me dimostra che operi con l'Illustrissimo nostro Protettore, et Patrone, che me raccomandi al Nuntio Apostolico, che venirà in questo Serenissimo Dominio.
Bacio humilmente le mani all'Illustrissimo et Reverendissimo Patrone, et a V.S. Patrone, et a V.S. Di cuore me raccomando”: 30 Febbraro 1560”.

Il Cardinal Protettore, pressato da così tante autorevoli richieste, paventa di rimando la perdita da parte dei francescani dell'Inquisizione. Lo Stesso Fra Felice scrive al Bozio:

Non vorrei già che la religione perdesse questa Inquisitione; ma vorrei, che si pigliasse qualch' altro partito, perchè finalmente da questi Cattolici Signori se ne può sperare ogni bene. E' possibile che non se trovi altro mezzo d'accomodare un negotio di sì poco conto? E pure si accordano le cose litigate con tanto sangue. Vorrei che fossero castigati i tristi, et a questo negotio si pigliasse un altro rimedio, perché il Bergamasco havrebbe a caro perder l'Inquisitione. So che siete savio, però quando vi venisse il taglio, sarebbe bene ne diceste una parola all'Illustrissimo Padrone: 6. aprile 1560.

Il nuovo Nunzio, il Vescovo di Vercelli arriva a Venezia con disposizioni del Cardinal Carpi di proteggere il Peretti ed infatti ordina che le stanze destinate al Reggente gli siano assegnate. La cosa fa adirare il Padre Guardiano che con l'intento di fargli perdere la carica di Inquisitore ricomincia a seminare zizzania; il Peretti scrive al Bozio:

Per non dar molestia all'Illustrissimo Padrone non le scrivo; ma V.S. Le potrà fare intendere, che col braccio del Reverendissimo Monsignor Nunzio si son superate le difficoltà della Reggenza, et sono entrato in camera, et martedì comincio a leggere. In quanto all'Inquisitione mi trovo alle prime difficoltà; et poiché li miei persequtori non mi possono offender con le prime querele, hora hanno provocato di nuovo questi Illustrissimi Signori, et scrivono contro di me a Roma, con dire, che io troppo austero nell'Officio, et che restando in offitio va a pericolo di concitare tumulto: che io ho comandato alli Confessori, che non assolvano chi tiene libri prohibiti, et chi non rivela gli heretici; et che lo stesso ho fatto in pulpito predicare alli Predicatori; onde la maggior parte resta di confessarsi; il che non viene da me solo, ma da' Generali degli Ordini, come appare nella sacristia di Venetia, e dalli editti de' Vescovi.
Monsignor Patriarcha b.m. Fece stampare i casi, e voleva si osservassero, et pure io non ne seppi niente, come il suo Vicario potrà testificare per coscientia.
Dicono anchora, che io ho scritto a Roma male de' Signori, che non volsero stampar l'Indice. Et pure tengo risposte appresso di me del buon uffitio che io facevo.
Quando si risolvessero, che io non havessi a continuar nell'offitio V.S. Reverenda sia con l' Illustrissimo Padrone, acciò habbia un'altra stanza, perché qui non ci potrei stare. 11 Aprile 1560

L'ex allievo del periodo senese P.M. Antonio Posio pubblica un'opera in undici tomi riguardanti le opere di Aristotele e Averroè dedicando, nella prefazione, la prima lode al Peretti. Questa cosa viene utilizzata dagli avversari di Fra Felice per evidenziare che nel Convento vi era un altro personaggio che poteva diventare Reggente ed Inquisitore al posto dell'attuale, creando ancora forte tensioni. Finalmente arriva da Roma il decreto che prevedeva il rientro del Peretti.
Dell' 8 giugno è una lettera del Peretti al Bozio nella quale si lamenta un'iniziativa, da lui non condivisa, del Padre Provinciale appoggiata da tutti i Padri del Convento, tranne che dal Micheli, che aveva fatto una supplica al Consiglio de Dieci per evitargli la rimozione e quindi la perdita da parte dei francescani dell'Inquisizione. Supplica caduta nel vuoto perché tardiva secondo il parere del Peretti.

Prima di partire definitivamente da Venezia il Peretti, accompagnato dal Provinciale Divo, prende commiato dal Doge. In una lettera del 21 giugno il Divo così relaziona l'incontro al segretario Bozio:

Il Reverendo Montalto prese licenza dal Serenissimo nostro Principe (il doge) per dover partire, et a quello disse, in questa sua partenza non avere altro dolore, che la fama sparsa, che partisse reo di qualche mal fatto, essendo innocente; invocando Dio, la sua innocenza, e li stessi suoi persecutori, che non havevano trovata in lui cosa degna di gastigo.
Sua Serenità li rispose, che quanto alla credenza d' alcuni particolari non se ne doveva rammaricare, per esser così stato sempre costume, che gli huomini non possan vivere senza malevoli, con tutto che giusti, ed innocenti siano.
Ma che si rallegrasse, poiché presso di lui, e dello stato si trovava in ottima opinione, et che quanto si faceva hora, era per conservatione delle ordinazioni di questa Repubblica; ma che passati questi diece anni sperava vederlo Inquisitore; e lo vedrebbe sempre volentieri. V.S. bacierà le mani all'Illustrissimo Patrone, et si conservi sano”.

Il 28 giugno il Peretti lascia definitivamente Venezia.
Il Posio inizialmente viene nominato Reggente a Venezia, ma poi viene spostato a Padova, sede molto più tranquilla. L'incarico dell'Inquisizione passa ai Domenicani.

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C. Tempesti, Storia della vita e geste di Sisto Quinto...., libro II pp. 27-38, anno 1754
Gregorio Leti, Vita di Sisto V: sunto da pag. 118

1555 maggio. Dopo aver predicato nel Convento dei Santi Apostoli, durante il periodo della Sede Vacante che si concluderà con l'elezione al papato di Giovanni Pietro Caraffa con il nome di Paolo IV, il generale dell'Ordine francescano, mantenendo una promessa fatta al Cardinal Carpi, fa scegliere al Peretti una Reggenza tra sei possibili e questi sceglie quella di Venezia, sia perché prestigiosa , sia perché è sicuro di appoggi presso la nobiltà lagunare da parte dei Colonna.
Dopo il 25 maggio. Il Ghislieri, commissario del Sant'Officio, e il Cardinal Carpi, protettore dell'Ordine, convincono il Papa a concedere l'incarico di Inquisitore presso la Repubblica veneta al Montalto.
Nel convento dei Santi Apostoli risiede un certo Padre Bartolomeo Cossali, veneziano, che illustra al Montalto la situazione politica, sociale e religiosa della Repubblica prevedendogli gravi inconvenienti accompagnando le sue riflessioni con una considerazione “A Venezia bisogna più fingere ch' eseguire, e più mostrar di non vedere che vedere, e cozzandosi per un' ingiuria se ne veggono risorgere cento peggiori”.
A Roma l'Ambasciatore delle Repubblica di Venezia, Soranzo spiega al Montalto le logiche sociali e politiche che vi predominano, mettendolo in guardia dalle gelosie.
Di entrambi questi incontri Fra Felice ne farà ben poco tesoro.

Il Sant' Uffizio gli fornisce 2000 scudi, oltre all'appannaggio mensile da parte del tribunale dell'Inquisizione di Venezia. Il Peretti chiede un vicario, indicando il baccelliere Mendola che era stato suo discepolo a Napoli, ma essendo già attivo a Venezia il baccelliere Piazza, per giunta veneziano, la richiesta viene respinta.
Il 26 settembre parte da Roma, passando per Ascoli, arriva a Bologna il 2 ottobre insieme al Padre Antonio Marsano per dirimere alcuni problemi insorti tra il Padre Guardiano e i frati del locale convento. Il Marsano era stato per tre anni nel detto convento, ma contrastato era ritornato a Roma; ora insieme al Montalto ritorna in questa città. Il Peretti opera con fermezza, trasferendo alcuni padri in altri conventi ed incarcerandone due; uno di questi era un protetto del Conte Pepoli, che pur intervenendo e minacciando non sortisce nessun ripensamento da parte di Fra Felice.
Ripristinato l'ordine in quel convento e preceduto dalla fama di persona molto severa nel mese di novembre arriva a Venezia.
Fra Felice arriva a Venezia con delle Memorie consegnategli dall'Inquisitore generale di Roma Michele Ghislieri alle quali si doveva ispirare nella sua attività inquisitoria:

  • 1) Si ricordi V.P. che l'autorità che gli vien data nell'officio d'inquisitore rappresenta il tribunale della giustizia divina, onde a questo fine deve far mettere sopra la porta maggiore delle sue stanze una croce col crocifisso inchiodato, ed all'intorno quest'iscrizione: aspicite in me si vultis recte judicare, e sotto i piedi della croce, disteso a lungo sovra la porta queste altre: terribilis est locus iste; vere non est hic aliud nisi domus Dei , et porta Coeli, e tutto ciò serve a far conoscere, essere quelle le stanze dell'Inquisitore.
  • 2) Deve spesso rammemorarsi che l'obbligo principale del suo officio consiste a difendere la causa, e l'onore di Dio contro i profanatori; la purità della santa religione cattolica contro ad ogni sentore d'eresia, e contro a quei che vanno seminando scisme, sia nella dottrina, sia nelle pensioni a causa di questa, ed inoltre deve star sempre vigilante alla difesa dell'immunità ecclesiastica, ed a' dritti della Santa Sede apostolica.
  • 3) Farà parte di queste memorie al suo vicario, che deve presiedere in sua assenza, e che gli è stato dato con patente dal Sant'Officio di Roma, non quel padre che da lei fu desiderato, che però deve conservarselo sempre in buona corrispondenza, e lo stesso deve far egli dalla sua parte verso di V.P.
  • 4) Avrà inoltre diversi officiali per il Sant' Officio, cioè 12 consultori, 6 teologi di differenti ordini, e tra questi due canonici secolari e sei dottori legisti, un segretario, un notaro, due assessori, un carceriere, due portieri d'intimazione ed un bargello con sei sbirri, e questi offici bassi saranno pagati dal denaro dell'Inquisizione.
  • 5) Quando avrà preso il possesso, informato del merito delle persone, scieglierà tutti questi officiali, de' quali ne manderà i nomi con i gradi qui in Roma, per essere confermati dal supremo Sant'Officio, e poi di tutto ne darà avviso al Senato ed a monsignor nunzio.
  • 6) La formola del giuramento che devono questi prestar nelle sue mani deve seguire come qui di sotto: Io N.N., consultore del Sant'Officio, giuro e prometto a Dio onnipotente, a Gesù Cristo suo figliolo, ai santi apostoli Pietro e Paolo, alla Santa Sede Apostolica, alla Santità di Nostro Signore, alla suprema Inquisizione di Roma ed a V.P. qui presente, d'esser sempre fedele alla santa Chiesa, Santo Tribunale, di far tutte le diligenze per trovare, scoprire o denunziare quei che potessero aver macchia, ancor che minima d'eresia, di contribuire alla difesa dell'immunità della Chiesa, e di non trascurar gl'interessi dell'Inquisizione.
  • 7) Di tempo in tempo deve rammentare V.P. questo lor dovere ai consultori, e raccomandargli d'andar visitando le chiese per scoprire gli abusi che potrebbero esser negli esercizii sacri, ed informarsi anche ne' chiostri se vi sono abusi all'osservanza delle regole.
  • 8) Ma più in paricolare bisogna che V.P. abbia qualche numero di spioni secreti, ma gente alle quali possa prestar fede, e da' quali deve esser avvisato degli scandali che potrebbero commettersi nella città, sia tra secolari, sia tra ecclesiastici, e se si commettono bestemmie, ovvero insolenze, contro le cose sacre.
  • 9) Benché V.P. non dipenda dal nunzio, ma direttamente dalla suprema Inquisizione di Roma, e più in particolare dalla Santità di Nostro Signore, con tutto ciò, per maggior rispetto del sommo Pontefice, deve far capo nelle cose sopra tutto di maggior importanza con detto sacro ministro pontificio, e parteciparle gli avvenimenti che arrivano alla giornata, particolarmente quando si tratta di qualche nuova intrapresa, che sia per interessare la santa Sede.
  • 10) Guardisi di domesticarsi troppo con questo o quell'altro, sia con ecclesiastici, sia con secolari, perché da questo ne può nascere il disprezzo della persona, cosa del tutto contraria al decoro del Sant'Officio, dovendo necessariamente gl' inquisitori farsi amare ma con rispetto, e farsi temere senza fierezza e senza dimestichezza, e quando più far si può, stare ritirato, essendo necessario di dar il buon esempio, sia nelle azioni, sia nella frequenza degli esercizii sacri.
  • 11) Da' Veneziani non s'ama molto il tribunale dell'Inquisizione, rispetto a quelle pretensioni ch' hanno di potere esercitare sopranità sopra l'ordine ecclesiastico, che non ben si conforma con gli ordini e statuti dell'Inquisizione, ed in oltre amano una certa licenziosa libertà, che per essere troppo grande in quella città, gli fa abusare se non della dottrina nella religione, almeno dall'apparenza nelle dogme, e come molti vivono come se non vi fosse cristianità, ci vuol destrezza per non rompere il filo tirandolo troppo, per non far d'un male minore un maggiore.
  • 12) Non ci è dubbio che la causa di Dio non si difenda se stessa, con tutto ciò lo stesso Iddio ha voluto i suoi ministri per sostenerla contro alla pravità degli uomini di questo mondo, onde fa di mestieri ivi esercitare con più rigore il zelo dove maggior è la corruzione, che per disgrazia si trova assai grande in Venezia.
  • 13) Circa alla giurisdizione che pretendono i Veneziani sopra all' ordine ecclesiastico, conviene chiuder gl' occhi in qualche cosa, fino che la Provvidenza divina disponga i mezzi a questa santa Sede per tagliare le radici a tali inconvenienze, che sono di gran pregiudicato all'immunità di santa Chiesa: però se non si possono torre gli abusi, si deve far oculata diligenza acciò non creschino più innanzi, e dove si può trovar legittima ragione per tagliare qualche ramo di questa pretesa giurisdizione, non solo non bisogna trascurarla, ma andarle all' incontro con buona risoluzione, che però non deve slocarsi dalla prudenza.
  • 14) Grandi sono gli scandali nel clero, e più in particolare regolari, facendosi lecito la maggior parte dei frati di vivere come secolari, ed in questo si deve tener la mano, esortare i superiori, minacciare, e fare provare ad alcuno per esempio il rigore dell'Inquisizione; e per gli scandali del secolo bisogna con lamenti esortare i magistrati a portarvi rimedio.
  • 15) Di quanto occorre bisogna sempre darne distinto avviso al tribunal di Roma, ma in maniera tale che non si perda tempo nella lunghezza delle discrizioni delle materie, poiché spesso si perde per così dire la buona volontà dell'esecuzione nel veder troppo sterili gli avvisi o le domande, però quanto più è possibile si procuri di portar rimedio alle cose ordinarie senza aspettare le spedizioni di Roma.
  • 16) Quando occorre dar sentenza si chiami sempre il vicario del patriarca per assistere, e di tutti i processi se ne deve questo partecipare, essendo di suo dritto l'assistenza nel tribunale dell'Inquisizione.
  • 17) Tanto basta per ora, poiché a misura ch' arrivano gli avvenimenti, nelle risposte se gli daranno sempre nuove memorie d' altre memorie.

Iniziano subito i contrasti con le autorità veneziane: Fra Felice dichiara assistente e consultore del suo tribunale un certo maestro di Treviso, cosa contestata dal Senato veneto che ancora non l'aveva riconosciuto invitandolo a presentarsi e a mostrare la patente rilasciata da Roma. Il Montalto pur ottemperando a malincuore a questa richiesta si rifiuta di lasciare il suddetto documento in Cancelleria per la relativa esamina affermando che un principe inferiore non avesse nessun diritto di esaminare un atto di un Pontefice. Il nunzio interviene raffreddando gli animi.

Solo agli inizi del mese di gennaio 1556 il Senato concede il beneplacito. Il vicario Piazzi, avendo udito il tentativo di sostituirlo si predispone male nei confronti di Fra Felice e nonostante fosse stato espressamente richiesto un incontro per stabilire il cerimoniale prima di entrare in Venezia, non si muove dal Convento. L'incontro tra i due avviene in un corridoio e si conclude con l'accompagnamento nelle stanze dedicate all'Inquisitore; qui il Padre Guardiano e tutti i padri del Convento gli vanno a rendere omaggio.
Il Piazzi è il primo artefice delle maldicenze nei confronti del Montalto fatte pervenire al Senato e ai nobili veneziani oltre che ai frati stessi, avvalorate in parte dal suo comportamento austero.

Nel Convento risiede un tal maestro Giulio, molto stimato dal Senato, che, maltrattato da Fra Felice per “alcuni interessi frateschi”, in pubblico inveisce contro il Montalto il quale adirato per tanto ardire minaccia una scomunica e non trovando nessuno tra i confratelli che volesse testimoniare minaccia una scomunica a tutto il Convento; l'intervento del nunzio calma la situazione.

Nel 1556 scoppia la peste, si chiudono per ordine del Senato i tribunali e i conventi, viene concessa l'uscita solo a quei religiosi che assistono gli infermi. E' questo un periodo di inattività per il Montalto come Inquisitore.

Dopo l'aprile 1557 con la creazione di Michele Ghislieri a cardinale e con l'appoggio del Cardinal Carpi la posizione di Fra Felice diventa più solida rendendolo più intransigente nelle cose religiose e civili, rischiando scontri con il Senato che puntualmente il Nunzio smussa.

1558 Nell'ottica di una più incisiva politica inquisitoria, il Pontefice Paolo IV nomina sedici cardinali con il compito di sopraintendere al tribunale dell'inquisizione ponendovi a capo il Cardinale Michele Ghislieri (detto l'Alessandrino), costui scriverà una lettera il 26 marzo “Al Rev. Padre nel Signore, il padre fra' Felice Peretti inquisitor generale in Venezia” inviandogli la bolla papale con l'elenco dei libri “degni del fuoco” invitandolo a perseguire tutti coloro che per vari motivi li detenessero.
Il Montalto convoca tutti i librai di Venezia imponendo che consegnassero gli elenchi di tutti i volumi in loro possesso, sotto pena di scomunica, che viene emanata con editto pubblico e affissa alla porta della bottega per un libraio che non riconoscendo l'autorità del Peretti si rifiuta di obbedire. Il Senato fa staccare questa scomunica ed ordina la cattura di colui che materialmente aveva eseguito l' affissione. Costui si salva rifugiandosi nel Palazzo del Nunzio.

Il Peretti scrive a Roma al Cardinal Ghislieri tacciando il Nunzio di essere troppo tiepido e poco propenso ad avvalorare le tesi del Tribunale inquisitorio; il Nunzio viene ripreso e quindi decide di non intervenire più a soccorrere l'Inquisitore nelle sue contrapposizioni al Governo della Repubblica.

Infuria , intanto, la guerra tra Paolo IV e gli Spagnoli che con il duca di Alba, viceré di Napoli arriva fin sotto le mura di Roma; a Venezia vi è l'ambasciatore spagnolo Don Francesco Vargas e quello francese il vescovo di Laon, o de Ledève, entrato in confidenza con il Montalto.
Il Grassi, Nunzio pontificio, insieme all'ambasciatore francese, decide di intervenire presso il Senato affinché questo non riceva il Vargas, in quanto rappresentante di uno Stato in guerra con quello della Chiesa, e non potendo intervenire di persona, perché allettato per la podagra, delega il Montalto che si dedicherà con straordinario trasporto.
Di sua iniziativa scrive al Senato dichiarando che un principe cristiano non doveva né poteva ricevere ambasciatori ostili alla Chiesa e nel contempo condannava per l' operato la casa di Spagna e quella d'Austria tacciandola di eresia, consegnando di persona, in qualità di Inquisitore, questo scritto (riportato a pag139-142 del volume del Leti) con richiesta di risposta che arriva con questo tenore:

Che sua Serenità si trovava strano che da un semplice inquisitore con tale maligna scrittura si trattasse d'eretica una Casa augustissima come quella d'Austria. Che il ricevere o non ricevere ambasciatori non era un punto di religione, ma un possesso del diritto delle genti. Che se Sua Santità l'aveva mandato inquisitore per fare il pedagogo al loro governo, s'era ingannato, e più ingannato sarà per restar lui mescolandosi in materie simili che sono di loro diritto. Ch'era tutto quello che Sua Serenità aveva a dirgli per ora.
L'Ambasciatore Vargas viene ricevuto con tutti gli onori e saputo dello scritto del Montalto, fattosene dare una copia, gli fa rispondere dal suo segretario Malvredo che, smentendo le accuse di eresia rivolte alla Casa d'Austria, taccia Fra Felice di difendere gli eretici.

Questa accusa lo fa adirare tanto da ipotizzare una scomunica nei confronti del Vargas o per lo meno del suo segretario. Il Nunzio, interpellato sulla questione, suggerisce di moderare i toni per evitare danni maggiori e di non dar seguito alla cosa. Il Senato, preoccupato dalle conseguenze imprevedibili di questa contesa, interviene presso l'ambasciatore spagnolo e presso il Montalto, ricordandogli che il suo incarico non gli dava alcuna autorità su ministri stranieri e se avesse perpetuato in questo atteggiamento sarebbe stato obbligato a recedere dal potere del Senato stesso.
In ogni caso con la pace di Cave (13 sett. 1557 ?) tra il pontefice Paolo IV e il vittorioso Filippo II si stempera questa contesa, anche se il Montalto continuerà a parteggiare per l'ambasciatore di Francia contro quello di Spagna che erano entrati in lite per meri privilegi di precedenza diplomatica.

Le “simpatie”del Montalto cambiano in favore degli spagnoli, allorché il re di Francia Enrico II si allea con i turchi che, esortati da questi, fanno scorrerie nel Regno di Napoli prendendo Reggio, Massa e Sorrento, creando sconcerto anche nei territori pontifici. Il padre Narpeo, amico del Montalto e zio del cappellano maggiore dell'ambasciatore spagnolo, ne organizza la riconciliazione che passa per una lettera di scuse (28 nov. 1558) da parte di Fra Felice. (lettera a pag. 146 del Leti)

Sul finire del 1588 il Pontefice fa pubblicare un decreto con il quale tutti i monaci e frati, che per qualsiasi motivo erano usciti dai loro monasteri, dovevano rientrarvi e subirne le punizioni che andavano da pubbliche penitenze alla prigione; coloro che non ubbidivano prontamente venivano considerati disubbidienti e renitenti e come tali passibili di ben più aspri castighi.
La cosa favorisce la fuga e l'adesione di molti, se ne stima oltre duecento, al protestantesimo. Questo decreto è valido non solo nello Stato della Chiesa, ma viene inviato a tutti gli inquisitori in Italia.

Appena ricevuto l'ordine il Montalto si attiva per ottenere il beneplacito del Senato che in brevissimo tempo risponde che il decreto in linea di principio non è di suo gradimento, ma si concede di pubblicarlo senza però eseguire nessun castigo se non dopo un processo esaminato da assistenti del Senato.

In Venezia e nel convento del Montalto vi sono numerosi casi di religiosi che vivono fuori del monastero come laici protetti da senatori della Repubblica. L'applicazione del decreto li colpisce e molti vengono processati e altri vengono scomunicati con l'affissione dell'atto di scomunica fuori la porta del refettorio.

Nel giugno del 1559 il generale dell'Ordine francescano nomina il Peretti commissario del Capitolo che si celebra nello Stato Veneto con il compito di far nominare “provinciale” un certo Padre Maestro Antonio Trevisano appoggiato sia dal Cardinal Carpi che dal Ghislieri.
Il Capitolo inizia tra forti polemiche per certi ordini emanati dal Montalto, ritenuti contrari ai privilegi concessi dal Senato ai frati, che temendo un fallimento clamoroso ne ritira alcuni. Ma nonostante questi sforzi viene eletto provinciale il Padre Maestro Cornelio Divo raccomandato dal Senato, stimato dai frati ma ostile al Montalto.
Terminato il Capitolo il Montalto ritorna all'attività di inquisitore accentuando la sua severità soprattutto nei confronti di quei religiosi che lo avevano avversato nella scelta del provinciale.

Nell'Agosto 1559 muore Paolo IV, fautore del potere dell'Inquisizione; il Peretti, paventando rivalse da parte del Senato nei suoi confronti, con il parere favorevole del nunzio lascia Venezia il 1° settembre con contentezza dei frati e dello stesso Senato. La sua dipartita da Venezia viene giudicata dal Sant' Uffizio come disdicevole per la reputazione del supremo tribunale anche perché era rientrato a Roma senza essere stato richiamato, sembrando a molti una fuga.

Il 26 dicembre viene nominato Papa il cardinal Giovanni Angelo de' Medici con il nome di Pio IV. Il Cardinale Ghislieri ripropone al nuovo pontefice il Montalto per la carica a Venezia e questo sia per stima personale che per rendere i frati di quella città meno ribelli e più docili sapendo che tutti i problemi erano fomentati dall'interno del convento.

Nei primi giorni di gennaio 1560 il Montalto riparte per Venezia, passando per Firenze e Bologna arrivandovi dopo tre settimane. L'accoglienza è piuttosto fredda e i frati stessi dopo aver più volte scritto al Senato per protestare contro l'attività austera dell'Inquisitore scrivono al Protettore dell'Ordine e al Sant' Uffizio di Roma chiedendone la rimozione, nello stesso tempo alcuni senatori scrivono all'Ambasciatore veneziano a Roma affinché si adoperasse allo stesso scopo paventando futuri disordini e problemi tra la Repubblica e il Papato.

Il Montalto cosciente di tutte queste manovre chiede al cardinale protettore e al Ghislieri di essere richiamato a Roma e lasciare una volta per tutte Venezia e nel frattempo opera come inquisitore con una rinnovata severità tanto che il Senato risentito promette di intervenire contro di lui.

Siamo agli atti finali: il Peretti processa come eretico un frate, il Senato interviene non consegnandolo all'inquisitore asserendo che ci avrebbe pensato, secondo le leggi di quel paese, la giustizia secolare; a questo punto, adirato per l'affronto, Fra Felice emette un monitorio contro il Senato facendolo affiggere alle porte di San Marco pretendendo, sotto pena di scomunica, la giustificazione di questo atto da tenersi in sua presenza presso l' ufficio dell'Inquisizione. Temendo ritorsioni, la sera stessa, il Montalto fugge in gondola da Venezia, il giorno successivo il governo della Serenissima invia delle guardie per arrestarlo, invano!
Alla fine di ottobre 1560 lo ritroviamo a Roma e viene promosso a Consultore della Congregazione dell'Inquisizione.
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Italo de Feo, Sisto V. capitolo IV, pag. 44 e ss.
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A Paolo IV fra Felice era congeniale. E, in effetti, avendolo i superiori nominato direttore degli studi del convento di Venezia nel 1556, Paolo IV, lo stesso anno (?), lo insignì della carica che lo poneva nel più alto grado di potenza cui un religioso potesse aspirare in quel tempo; lo fece inquisitore per l'intero territorio della Repubblica veneta.
L'inquisitore era al di sopra della giurisdizione ecclesiastica e, in materia di fede, di quella civile. La Repubblica veneta, che aveva sino ad allora intrattenuto con la Santa Sede buoni rapporti, non s'era mai sottratta alle richieste papali, rigide in fatto d'ortodossia. Sino all'avvento di Paolo IV era intercorsa tra il Papa e la Repubblica una tacita intesa, per la quale il pontefice rispettava l'autonomia della Serenissima, restringendo il proprio intervento ai casi più palesi e gravi.

Fra Felice alterò questo modus vivendi. Ottenne dalle autorità laiche il permesso alla stampa dell'indice dei libri proibiti, secondo l'elenco che ne aveva fatto fare Paolo IV con criteri restrittivi. E pretese che le tipografie vi si attenessero, bruciando quelli censurati.
Occorre ricordare che Venezia era in quegli anni uno dei centri dell'industria tipografica europea. Limitare questa industria significava pregiudicare interessi economici notevoli.

Ne nacque una generale ostilità contro l'inquisitore i cui riflessi non tardarono a farsi sentire sul convento, ove fra Felice voleva introdurre un costume non consono al tradizionale ambiente veneziano.
Ne nacque un attrito fra il superiore del convento e il nuovo venuto, forte della propria intransigenza e dell'appoggio papale.
Le autorità laiche non potevano guardare di buon occhio questo francescano forestiero cui si rimproverava di aver pubblicato prematuramente, per eccesso di zelo, l'indice dei libri proibiti, quando lo stesso pontefice non ne aveva autorizzato la divulgazione in altri paesi cattolici. Le questioni di suscettibilità, specie in uno Stato come la Repubblica veneta, toccavano non solo l'animo dei reggitori, ma turbavano l'opinione pubblica, posta in allarme, oltre che dalla propaganda viperina dei frati gelosi del Peretti, dall'agitarsi di pennivendoli e scrivani che s'erano giovati della relativa tolleranza religiosa per trarne materia alla propria professione.

Si costituì così contro fra Felice un fronte compatto che gli rendeva difficile svolgere a Venezia l'azione che s'era prefissa. Queste difficoltà lo colpirono oltremodo e contribuirono a comprometterne la salute. Il tracollo verso quello che possiamo immaginare sia stato un vero e proprio esaurimento nervoso si ebbe quando gli venne a mancare, con la sopravvenuta morte di Paolo IV, l'appoggio più valido.

Pensò di rinunciare temporaneamente alla lotta, ritirandosi a Montalto. D'altronte lo stesso papa Carafa, per non venire in contrasto con la Repubblica veneta, s'era deciso a trarlo dal suo ufficio, richiamandolo presso l'Inquisizione romana.(notizia inesatta)
Fu facile al cardinale Carpi, cui non era piaciuta la riottosità dei frati veneziani, ottenere dal nuovo Pontefice Pio IV, che il suo protetto fosse inviato nel 1560 nuovamente a Venezia, questa volta con poteri maggiori di quelli che gli aveva concesso Paolo IV. E i frati di Venezia sperimentarono a loro spese che non si scherzava con Felice Peretti.

Ancora una volta l'eccessiva severità non gli tornò a vantaggio. Si ribellarono non solo i frati del convento ma gli si mostrarono ostili anche i dignitari del Consiglio dei Dieci.
Le dispute tra i veneziani, alcuni dei quali parteggiavano per il Peretti, altri per il superiore del convento, avevano messo a rumore la città e ad esse si aggiunsero le recriminazioni del Consiglio presso l'Inquisizione romana perché eliminasse il motivo stesso dello scandalo, richiamando fra Felice.
A Roma non si poté fare altrimenti, ma per punire in qualche modo i francescani di Venezia, venne tolta loro la carica d'inquisitore per il territorio della Repubblica e affidata all'ordine dei Domenicani.

Intanto per non mortificare lo zelo del frate e per dare anche un segno che s'intendeva ricompensarlo, egli fu nominato, su proposta del cardinale Ghislieri, consultore presso l'Inquisizione romana, una promozione che gli accresceva prestigio e autorità.

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