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SISTO V E LA DIOCESI DI MONTALTO - IL PRIMO VESCOVO E IL PRESIDATO (Cap. IV)*

Indice articoli

Se la nomina del primo vescovo di Loreto, nella persona dell'uditore di Rota, Francesco Cantucci, precede, logicamente, la provvisione per Montalto6, sostituito, però, subito dal canonico di S. Pietro, il romano Rutilio Benzoni7, il 10 dicembre San Severino ebbe il proprio, il vicentino, dottore in diritto, Orazio Marzari, giudice di Borgo8; mentre per Tolentino, unita aeque principaliter a Macerata, ne prese il governo il già operante presule, il milanese Galeazze Morene, nipote del famoso cardinale Giovanni Girolamo Morone (1509 - 1580)9.

Nato, appunto, a Porchia, mons. Giovannini, «ex honestis parentibus ac legitimo matrimonio coniunctis», nel 1522, circa10— quindi, della stessa età, o con poca differenza, del suo grande benefattore, venuto al mondo il 13 dicembre 152111 — da Luca e Pomponia Jotti12, membro di una famiglia cospicua per censo e beni di fortuna, piantatasi anche fuori13 , conforme ad altri congiunti, Paolo Emilio ricevette un'educazione sana, improntata ai più solidi principi cristiani e un patrimonio culturale cospicuo, che si arricchirà non poco nel corso degli anni14 .

Un fratello, anch'egli sacerdote, diverrà canonico del capitolo collegiale prima, cattedrale, dopo, di Montalto, come si è visto.
Gli studi superiori Paolo Emilio li compì prima a Perugia, ove fu per due anni (1548 -1549), uditore di filosofia e di medicina, e dopo a Macerata, nella cui università conseguì il dottorato, anche in diritto canonico15 . Ivi insegnò anche filosofia. Ordinato sacerdote — se ne ignora l'anno — mercé i contatti avuti in questi anni di studio e di insegnamento, riuscì porsi al servizio di alte personalità della Curia romana. Per cui, il 18 maggio 1554, seguì, in qualità di segretario16 , in Francia, il nuovo nunzio apostolico, in sostituzione di Prospero Santo Croce, Sebastiano Gualterio, vescovo di Viterbo, già conclavista di Alessandro Farnese17 . Nominativo, che può, in qualche modo, aprire la via ad individuare il filone, che portò il Giovannini al fianco del Gualterio: abate commendatario dell'abbazia di Farfa, da cui dipendeva il Presidiato, che aveva come cittadino anche il nostro soggetto, al cardinale facevano capo interessi e aspirazioni dei sudditi. Giunta la comitiva a Parigi il 22 giugno, ricevuta dal re, Enrico II, il 28, vi rimase sino all'ottobre 1556, quando il nunzio dovè partire, in seguito al breve di richiamo del settembre. Nella mansione coperta, il Giovannini si trovò nella condizione di interessarsi dei vari problemi e aiutare il nunzio nel difficile compito affidatogli dal papa, consistente, in primo luogo, nel raccomandare la pace con Carlo V e nella mediazione nella controversia di Siena, assalita da Cosimo de Medici, d'intesa segreta con l'imperatore, mentre la repubblica aveva truppe ausiliari francesi18 .

Di ritorno a Roma, seguirono, per il Giovannini, altre missioni diplomatiche. Il card. d'Aragona riferì, in continuazione alla menzionata notizia: «cum desino [sic Clusin.] in Belgiam, in Hispaniam, Avenionem et Tridentum»19 . Il nunzio in parola è Salvatore Pacini, vescovo appunto, di Chiusi, provincia di Siena20 . Stando al primo posto il Belgio, la missione ivi si svolse prima del marzo 1559, come si vedrà subito. Siccome la nunziatura del Belgio — detta, con precisione, delle Fiandre — fu inaugurata l'il febbraio 1577, quando Gregorio XIII inviò a don Juan d'Asburgo, mons. Filippo Sega, vescovo di Ripatransone21, con tutte le attribuzioni di nunzio permanente22 , la missione del Pacini va vista non come nunziatura, ma in qualità di legazione, o compito particolare, conforme all'uso vigente. Ignorandone uno specifico, da collocarsi, doverosamente, tra la fine del 1556 e il marzo 1559, cioè nel ristretto spazio di poco più di due anni, vien fatto di pensare alla sua inclusione nella nota legazione del card. Carlo Carata, cardinal nepote di Paolo IV, a Bruxelles, presso Filippo II: partita, la comitiva, da Roma il 22 ottobre 1557, giunta nella capitale belga il 12 dicembre, riprese la via del ritorno il 25 marzo seguente 1558. È facile che, accanto al consigliere, p. Alfonso Salmeron, S. I., e al confratello Pietro de Ribadeneira, nonché al nunzio svizzero Ottaviano Raverta23 , sia stato aggregato anche il Pacini, governatore di Roma e non ancora vescovo; il quale, a sua volta, siasi posto a fianco consigliere, o segretario, il Giovannini, avvicinato facilmente nella sua luogotenenza di Ancona, espletata al posto del governatore, appunto, il Carafa24.

Certo si è, che aveva appena lasciato il governo di Roma, nel febbraio 1559, e non ancora, per lo meno, immedesimatosi dell'obbligo pastorale, che il Pacini, nel marzo fu inviato da Paolo IV nunzio in Spagna, alla corte di Filippo II, con l'istruzione di tutelare la libertà ecclesiastica, contro le usurpazioni del potere regio e di sostenere, con tutte le forze, l'Inquisizione, in quegli anni particolarmente attiva nella nazione25. Accompagnando il nunzio, il Giovannini entrò, con maggiore cognizione di causa, in delicati ed anche molto tesi problemi, allora pendenti tra lo Stato e la S. Sede. Richiamato dalla Spagna, nel marzo dell'anno seguente26, nuovo sommo pontefice Pio IV, è facile che, invece di portarsi senz'altro a Roma, il Pacini sia stato ora inviato direttamente ad Avignone; o anche se abbia messo piede nell'Urbe, la missione quivi, accompagnato dal Giovannini, va circoscritta nei due anni che intercorrono sino ai primi del 1563. Il 26 febbraio, infatti, si attesta che il Pacini siasi portato a Trento, per prendere parte ai lavori delle assisi conciliari27.

Fu l'occasione, per il Giovannini, di assistere al dibattito intenso che si svolgeva per preparare la ventitreesima sessione, celebrata il 15 luglio, concentratasi sui decreti riguardanti la «vera et catholica doctrina de sacramento ordinis, ad condemnandos errores nostri temporis»; e sul «de reformatione», diciotto capitoli, riguardanti il dovere della residenza, l'obbligo di ricevere gli ordini sacri per tutti i prelati, compresi i cardinali, e poi precise prescrizioni sul conferimento dei medesimi ordini; chiudendosi, alla fine, con le disposizioni circa l'educazione dei candidati all'altare28.

Fu l'occasione, fortuita, o preparata d'intesa con Roma, come sembra più probabile, per il Giovannini, di aggregarsi alla di gran lunga più impegnativa missione diplomatica, che il nuovo nunzio, «l'energico e avveduto» mons. Giovanni Francesco Commendone, vescovo titolare di Cefalonia, si accingeva a compiere in Polonia: «cum cardinali Commendono in Poloniam maiorum negotiorum particeps, profectus est», comunicò il cardinale d'Aragona ai suoi colleghi, a proposito della nomina vescovile del nostro soggetto29. Già a Trento nei primi tempi dello stesso anno 156330, il nuovo nunzio si trovò nella condizione di avvicinare, per lo spazio di diversi mesi, sia il Pacini che il Giovannini. Presentategli, quest'ultimo, dal suo superiore, con i migliori requisiti, ed avuto modo di sperimentarlo direttamente, ne venne la decisione di giovarsene anch'egli, dell'esperienza acquisita e della preparazione accumulata. Mentre Antonio Maria Graziani continuò a fungere da fedele segretario del Commendone, Paolo Emilio Giovannini e Federico Pendasio gli furono a fianco in qualità di «dotti uomini», cioè consiglieri ed elementi illuminanti nella difficile missione diplomatica31. Partiti da Venezia il 16 ottobre,32 giunti a Cracovia il 21 novembre, rimasero in Polonia sino alla fine del 1565. Vi trovarono l'episcopato disunito, minaccia di convocazione di un concilio nazionale, il re Sigismondo Augusto impaziente di separarsi dalla moglie, Caterina d'Austria, il primate Giacomo Uchanski, arcivescovo di Gnesen, fortemente sospettato di deviazionismo in materia disciplinare e liturgica, la vita religiosa fortemente scossa, con tutte le ben immaginabili conseguenze. A fianco, sempre, del Commendone, posto periodicamente al corrente delle vaste idee e progetti del primate33, e in stretto collegamento con il santo, dotto e famoso cardinale Stanislao Hosio, vescovo di Varmia e dopo Penitenziere maggiore a Roma (1579)34, il Giovannini prestò la sua opera nella sensibile ripresa registrata nella nazione alla fine della missione. Se si era reso utile, sebbene nascosto all'ombra del capo e poco o nulla risuonante al di fuori, come non di rado in compiti del genere, tornava in Italia ricco di conoscenze e di esperienze non indifferenti, spazianti su buona parte dell'Europa e su di una vasta gamma di problemi, toccanti tutti i campi della vita della Chiesa.

Il periodo che segue, ventun'anni, sino all'ascesa alla cattedra episcopale della sua patria, è il meno fornito di notizie circa l'attività svolta dal Giovannini. Si è debitori al card. d'Aragona di aver anche ora, in qualche modo, empito il vuoto: «Canonicatum Ravennae consecutus — vi si legge — aliquot in illa urbe annos resedit ac Sinodo interfuit, a qua esse inter examinatores relatus est. Cesenae episcopi vicarius fuit»35. Campo di attività, quindi, restano le Romagne e, in ordine di tempo, prima Ravenna e poi Cesena. Sapendolo nel capoluogo nel 1571, come vedremo subito, è indispensabile indietreggiarne l'arrivo. Ci si domanda, come mai, il Giovannini, siasi stabilito in tale regione italiana, finita l'attività diplomatica. La spiegazione va ricercata nel titolare della legazione di Romagna: nel 1560 Pio IV aveva nominato legato il nipote, card. segretario di Stato, Carlo Borromeo; il quale, trattenuto a Roma, fece governare la città e provincia dal vice legato Ranucci di Sabina, prima, da mons. Pacini, vescovo di Chiusi, dopo. Finita la legazione del Borromeo, con la morte di Pio IV — 9 dicembre 1565 — anche l'opera del Pacini si sarà chiusa allora36. Conoscendo gli stretti rapporti intercorsi tra questi e il Giovannini, è facile che, appena fatto ritorno dalla Polonia, in sulla fine dell'anno o nei primi del seguente, egli sia stato chiamato a Ravenna e fatto canonico del capitolo metropolitano37. Affermandovisi che lo «fu pei suoi meriti»38, si riesce ad intravedere la motivazione presentata. Non si trattava, certo, di piccola cosa far entrare in un capitolo metropolitano di una città e diocesi tanto illustre, un extradiocesano. Che il Giovannini abbia preso parte ai lavori del Sinodo diocesano, indetto dal card. Giulio Feltrio della Rovere, amministratore apostolico39, nel 1571, i cui decreti furono editi a Pesaro nello stesso anno, lo si ricava dall'elenco dei partecipanti, tra cui è annoverato: «Paulus Emilius Joanninus»40. Va tenuto, altresì, presente, che il della Rovere il 13 luglio 1547, a pochi giorni dalla creazione cardinalizia, il 27, era stato nominato legato di Perugia41, cioè proprio nel tempo della permanenza ivi del Giovannini. Lui vivente, lo storico di Ravenna, Girolamo Rossi, nell'annoverarlo tra i padri sinodali, in qualità di esperto, lo classifica «philosophus et iurisconsultus»42; altrove parla di alcuni che «substituunt Paulum Emilium Joanninum, canonicum olim Ravennatem, doctrina et prudentia insignem»43. Certo si è che, anche in seguito, storici di Ravenna si premurano di parlarne con una certa distinzione, segno evidente di un ruolo cospicuo coperto nella vita ecclesiale della città44.

Sul vicariato generale della diocesi di Cesena, negli ultimi anni antecedenti all'episcopato, mancano precisazioni di sorta. Era vescovo mons. Adardo, o Odoardo, Galandi, già chierico di Pisa, che resse la diocesi di Cesena per trentun'anni, dal 7 dicembre 1557, sino al 1588, quando rinunziò. Aveva, più o meno, gli stessi anni del Giovannini, era originario di Viterbo, come i due predecessori, suoi congiunti, ed era stato studente in diritto a Perugia45. Tenendo presente questo, il nuovo compito affidato al Giovannini a Cesena sarà stato frutto sia dell'amicizia contratta nella comune frequenza universitaria nella città umbra che, soprattutto, dall'essere la diocesi di Cesena suffraganea di Ravenna46 e a continuo contatto tra di loro, come si riscontrò nella partecipazione di delegati al menzionato sinodo del 1571. Vi si trovava a Cesena, quando Sisto V «pensò di ritirare nella sua patria un soggetto di tal merito e volendo premiare con apostolica munificenza la di lui virtù», lo elevò alla sede episcopale di Montalto47.

Nella mira di rivalutare al massimo possibile personalità del posto, il papa pose gli occhi su di un soggetto del medesimo, piuttosto che su di un estraneo. Il fatto è che l'Azzolini sottolinea la «singularem prudentiam, qua tot visendis provinciis diversis tractandis negotiis», dimostrata dal Giovannini; e per di più, il «magnum preterea religionis integritatis ingenii specimen semper» manifestato48. Ancor più incisivo fu l'ambasciatore di Urbino, il 19 novembre 1586: «Nel concistoro di questa mattina — comunicò — Aragona ha preconizzato la persona di ms. Paolo Emilio Giovannini, marchiano, al vescovato di Montalto: huomo di molta bontà et valore, et di meriti presso a questa corte, et al papa [...]». Anzi, il credito del medesimo era tanto grande in quei giorni a Roma, da includerlo nella lista dei probabili cardinali, di cui si attendeva, da un momento all'altro, la nomina: «et che passa ancor lui — continua l'avviso del medesimo giorno — da 6 giorni in qua, su la lista degli incappellandi a 18 per cento»49. Si pensava, addirittura, che Sisto V avesse di mira porre un cardinale alla guida della nuova diocesi50. Un po' troppo! Nel constatare la larghezza e, soprattutto, i disegni sistini nei confronti della sua patria, nessuno si meraviglierà se la voce, circa il Giovannini, siasi ripresentata nel dicembre dell'anno seguente, 1587, e non a Roma, ma, addirittura a Firenze51. Nella corte pontificia, invece, si sussurrava di un richiamo a Roma del presule, per adoperarlo presso il card. Montalto52.

Sarà stata, questa, la conseguenza della notorietà degli ininterrotti rapporti che intercorrevano tra i due e della non passeggera considerazione che il porporato faceva del pensiero del maturo Giovannini, anche in poltica estera, sino al punto da chiederne il pensiero su determinate situazioni. Un esempio è rappresentato dal Discorso del vescovo di Montalto sopra le turbolentie di Francia al card. Montalto, inviatogli, su esplicita richiesta, nel 159053.

Quantunque si tratti più di una esposizione generale circa la forza della Chiesa nel complesso delle nazioni e dei problemi riguardanti la pace, con forte tendenza all'esaltazione di Sisto V — ed era pacifico —, che non di un indirizzo specifico sui reali fatti francesi, allora molto critici e delicati, tuttavia, il documento apre una pagina interessante sulla reale portata della formazione mentale e culturale dell'autore.

Se si aggiunge che al Giovannini vengono ascritte varie opere — una, almeno, appartiene al periodo di episcopato, posteriore al 1590 — rimaste manoscritte e ora, per lo meno, introvabili, il metro valutativo sulla sua personalità si allarga di non poco. La Bibliotheca Picena, infatti, riportandosi al noto francescano conventuale e contemporaneo del nostro presule, Orazio Civalli54, ne ascrive le seguenti: un trattato De residentia, due De medicina e Delli beni della vecchiezza, tre volumi di Poesie; e inoltre: Come si deve portare un nepote di papa con principi, cardinali, vescovi e religiosi; Come deve portarsi un cardinale fatto papa; il seguente, poi, è legato alla cattura da lui subita da parte dei banditi, nel 1590: De episcopo Montis Alti ab exulibus capto55; e ancora: Segreteria de' prencipi; Sopra il governo delle città dello Stato ecclesiastico e specialmente di Ascoli: e infine, De summo bono. I singoli argomenti, nella loro varietà, danno il segno della vastità di cultura del presule, con elementi di indubbia praticità, frutto dell'esperienza precedente, maturata in molteplici mansioni.

Con un panorama sì lusinghiero, avvalorato dalla non frequente assicurazione papale, non desterà meraviglia apprendere che il Giovannini sia stato ritenuto, e giustamente, «dignissimus», a reggere la Chiesa di Montalto56. Il papa, da parte sua, ben conscio di quanto operava, nella sentita preoccupazione pastorale nei confronti della sua patria, approfittando dei tempestivi ringraziamenti pervenutigli per tale nomina, richiamò i sudditi della nuova diocesi al loro dovere e al singolare senso di responsabilità che si assumevano: «Siccome Nostro Signore — rispose il 16 dicembre 1586 il card. Azzolini al neo capitolo cattedrale — si è mosso ad onorare la patria sua e crear la città ed ultimamente darle per vescovo un prelato di tanto valore e di tanto merito, per la singolar carità sua verso de' suoi, e per desiderio che con tale beneficio si accresca in loro la divotione e si eccitino maggiormente gli animi al culto divino, così gli è stato caro il contenuto che le SS.VV., colla lettera loro del 29 passato, ne dimostrano; e mi ha imposto, ch'io l'esorti, ch'essendo state prime a ricever le grazie fatte da Sua Santità a quella Chiesa, siano anche colla vita e coll'esempio loro d'incitamento agli altri nel servitio di Dio e nell'ubbidienza et affettione verso il pastore che Sua Santità ha loro dato; massime, essendo egli non solo della sua patria, onde ne hanno da aspettare governo et amore di vero padre, ma persona di bontà, di dottrina et esperienza molto insigne, e perciò molto accetta a Sua Beatitudine [...]».57
La nuova diocesi la si affidava in buone mani e il presule, da una parte doveva ritenersi fortunato, perché aveva a fianco il prodigo pontefice, sempre molto sensibile nei confronti della sua patria, dall'altra, vigile attento e realizzatore qual egli era, imponeva in lui un'azione, pronta, efficace e rispondente appieno alla fiducia riposta e agli intenti perseguiti. Certo è che nei quattro anni, circa, di mutua collaborazione, mentre l'azione del pontefice si rivela preponderante e, si direbbe, schiacciante, riesce difficile sceverare, con esattezza, quanto, in realtà, appartenga alla libera iniziativa del presule. Il quale, portatosi subito in diocesi, conforme alle severe e fresche prescrizioni circa la residenza, sulla scorta dei decreti conciliari — sebbene ancora persistenti resistenze, abusi e consuetudini: per es., quella di investire di lunghe missioni diplomatiche vescovi residenziali58 — si veniva a trovare nella condizione di dover attuare, con la massima tempestività e precisione, quanto gli veniva ordinato dall'alto, anzi interpretarne la volontà e, in qualche modo, prevenire intenti e aspirazioni. E tutto si risolveva, poi, nel porre Montalto all'altezza sia del nuovo impegnativo compito venuto a coprire, sia del destino di grandezza prefissole dal non comune suo figlio. Se ne giovò la cittadina, se ne giovò anche il presule: non è di tutti, e di ogni giorno, infatti, aprire bocca e, senza muoversi, vedersi spalancare tutte le porte e, anzi, pervenire ogni pur minimo desiderio.

Se ne vide subito la prova. Solo dopo la costituzione di Montalto in città e centro diocesi, il papa, senza perder tempo, nel proprio giorno genetliaco, 13 dicembre seguente, secondo del suo pontificato, potè emettere il celebre breve Postquam nos, con cui veniva data una nuova struttura amministrativa alla zona, consacrando, in tal modo, la nuova era della sua patria59. Sottoponendo, in questo campo, a Montalto anche Ripatransone, città e centro diocesi, non era possibile anticipare il gesto. Anzi, il papa volle accompagnare e porre a base del fresco e ampio Presidiato, con capitale Montalto, all'alba proprio del nuovo lancio pastorale e per facilitarne il successo, un provvedimento di amnistia generale alla città e alle terre circonvicine, liberate dal banditismo dal suo governatore, o commissario straordinario, Giulio Sclafenato, nell'impostazione generale, forte, data al problema sin dall'inizio del pontificato60. Se si tiene presente che il provvedimento di clemenza, anzi di tranquillità per il magnanimo e comprensivo comportamento dello Sclafenato, fedele interprete dell'impostazione pontificia, viene sollecitato dalle comunità cittadine stesse più vicine e legate a Montalto61, si coglie, nella vera essenza, lo spirito aleggiante e animatore, quello caritativo ed evangelico, in modo tale da rendere più agevole il cammino della nuova svolta ed ottenere i più copiosi frutti di vita cristiana.

Con il nuovo Presidiato — eretto per un «felicem statum et communem utilitatem et commoditatem», di Montalto e delle terre interessate, compreso Montefortino e Montemonaco, estranee al vecchio Presidiato62 — Montalto divenne sede del governatore e della Curia, compresa l'amministrazione della giustizia, nonché centro di un collegio di notai civili e criminali e dell'archivio relativo: separato, così, del tutto dal governo di Macerata, gli abitanti, per forza di cose, vennero esentati dallo «stipendium et salarium» dovuto ad essa. E allo scopo di salvaguardare «rerum abundantia in dictis civitatibus et terris Praesidiatus», vi si stabiliva di poter asportare il grano soltanto dopo aver assicurato sul posto almeno la terza parte del prodotto; per il medesimo fine — «ut homines dicti Praesidatus maiori cum rerum copia vivere possint» — vi si permetteva di comprare liberamente, «absque ullis impedimentis», il grano nel confinante regno di Napoli. Aggiungendovisi, per le singole località, il privilegio della democratica elezione del podestà — «praetorem» — e del libero commercio delle derrate, per il raggio di quaranta miglia da Montalto, senza i consueti e impedienti aggravi di dazi, di dogane e di gabelle; e imponendo, inoltre, nel Presidiato, un unico sistema di peso e di misura, involontariamente si imprimeva alla zona un inusitato senso di modernità, ben degno del genio di Sisto V.

* Di Giovanni Papa, Gianni Maroni editore, Ripatransone, 1985, pp. 79 - 97

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