LA MEZZA FOGLIETTA DI SISTO V
Gli osti che formavano intorno alla piazza una specie di cordone rinfrescante, facevano ottimi affari, specialmente nei giorni di mercato. Compratori e venditori, dopo aver discusso a perdita di fiato per mettersi d'accordo, avevano la gola inaridita, e sentivano il bisogno di umettarla con un bicchiere.
L'osteria più frequentata era senza dubbio quella di mastro Gregorio, soprannominato Forcone, chi sa in seguito a quali prodezze. Forcone era un antico bandito al servizio di casa Orsini, che aveva reso a quella feroce famiglia feudale molti servigi oscuri e tenebrosi, mandando all'altro mondo le persone che dispiacessero a qualcuno della serenissima famiglia, aveva combattuto con Lodovico Orsini, e si diceva che fosse stato uno degli uccisori di Vincenzo Vitelli, luogotenente del duca di Sora, ucciso a tradimento per ordine degli Orsini.
Questo malfattore si era ritirato dagli affari di coltello, e aveva avuto dal duca di Bracciano il regalo della catapecchia in cui era situata l'osteria, come pure alcune botti di vino. Con questo capitale, e con alcune centinaia di scudi d'oro messe insieme nelle sue oneste imprese, l'assassino era riuscito a piantare un negozio avviatissimo, che ogni giorno gli fruttava una quantità innumerevole di paoli e di mezzi paoli.
Benché non esercitasse più, l'ex-omicida inspirava il più gran terrore alla gente dei dintorni; non già per la sua forza e robustezza, che pure erano grandissime, ma principalmente perché le sue relazioni con la famiglia Orsini facevano comprendere a ciascuno che il pigliarsela con lui sarebbe stato quanto un attirarsi la vendetta della possente famiglia. Forcone aveva moglie, una bruna trasteverina che sola — a quanto dicevasi — aveva potenza di frenare in qualche modo l'indomabile ferocia del marito. Tuta (Geltrude) era del restò una donna di forza non comune, di parola assai libera, e che non avrebbe esitato a spaccare un boccale sulla testa del marito ribelle. L'ex-assassino l'amava assai, ma la temeva anche più.
L'osteria, essendo giorno di mercato, era pienissima fino dalla mattina. Frati, birri, studenti, forestieri di tutte le parti di Europa si affollavano al banco del vinaio con una fretta che avrebbe dovuto spianare a un sorriso la faccia dell'oste più esigente.
Eppure Forcone era malcontento.
Due cause mettevano di cattivo umore l'onesto brigante in riposo: una di ordine quasi politico, l'altra che si riferiva a un interesse importante della sua bottega.
Il motivo politico era questo: Casa Orsini era stata bastonata per bene. L'audacia di questa famiglia, che non aveva conosciuto limiti al tempo di Papi deboli e senza. energia, era caduta d'un tratto innanzi alla fermezza del terribile frate che si chiamava Sisto V.
Il giorno innanzi i birri erano penetrati nel palazzo Orsini per arrestarvi un bandito. Non solo questo atto, che in altri tempi aveva costato la vita al bargello, era stato compiuto senza resistenza; ma gli stessi famigliar! del palazzo avevano prestato man forte ai birri, e il bandito era stato personalmente consegnato alla polizia dal signor Virginio Orsini, unico della famiglia che si fosse trovato in palazzo al momento dell'arresto.
Ludovico Orsini, il temuto capobanda, l'uomo che non indietreggiava mai per nessun pericolo, aveva tremato della collera di Sisto ed era corso a chiedere alla Repubblica dr Venezia un rifugio e un impiego. Venezia lo aveva mandato comandante militare a Corfù.
Lo stesso duca di Bracciano, quel Paolo Giordano Orsini che il re di Spagna considerava come un alleato e un eguale, quel formidabile bandito che con un cenno agitava a sua voglia le masse sparse nello Stato romano, quell'audace che per un momento aveva osato sfidare la collera del pontefice in Vaticano, era fuggito anche egli. Annidato nel suo castello di Bracciano, cinto da sgherri, numerosi e devoti, il duca nondimeno era agitato da ansie continue, e tendeva inquieto l'orecchio, temendo sempre di udire lo scalpitìo dei cavalli che dovevano condurre la vendetta di Sisto.
A Gregorio, detto Forcone, queste cose facevano l'effetto del mondo al rovescio. Egli si era avvezzato a considerare casa Orsini come una specie di sole intorno a cui gravitavano, astri minori, Roma, lo Stato pontificio, il resto del mondo.
Sisto V aveva, con un colpo della sua mano possente, rovesciato questo medioevale edificio di prepotenza; e Forcone accusava Sisto di questa rovina.
L'altra ragione, quella commerciale, si riferiva a un'ordinanza, recentemente uscita, del governatore di Roma, che imponeva agli osti di tenere a disposizione del pubblico la piccolissima misura detta la mezza foglietta.
Gli osti avevano sempre opposto una resistenza invincibile a questa misura che accresceva la loro clientela e i fastidii senza accrescere i loro proventi. Sotto Gregorio XIII, quando si era cercato di mettere questa obbligazione, Forcone si era vantato pubblicamente di voler cavare il cuore al notaio che avesse osato pubblicare questo editto.
Ma Gregorio XIII era morto; il governatore nominato da Sisto aveva messo fuori l'ordinanza, e nessuno aveva osato dire una parola. Il governo era mutato, e i cittadini di Roma sapevano benissimo che una mano di ferro era succeduta alle deboli mani del vegliardo defunto.
Forcone perciò bestemmiava e si arrabbiava. Ma, da che aveva veduto i capi di casa Orsini precipitare dall'altezza in cui prima si tenevano, l'oste aveva cominciato a usare maggior prudenza: la paura, se vogliamo adoperare questa parola volgare, parlando del terribile oste, aveva fatto tacere lo sdegno, o almeno lo faceva prorompere solamente nelle grandi occasioni.
Due avventori troppo somiglianti agli altri che ingombravano l'osteria per essere osservati, entrarono e si misero a un tavolino. Uno di essi era un fraticello vecchio e d'aspetto malaticcio; l'altro, una specie di soldato, si guardava intomo con sospetto, e pareva tanto inquieto e turbato quanto il suo compagno era al contrario lieto e tranquillo.
— Tu sembri sulle spine — disse allegramente il frate al guerriero. — Chi direbbe, al vederti così pauroso, che tu sei l'invincibile capitano che il mondo riverisce?
— Se ho paura, non è per me, lo sapete benissimo — rispose l'altro con burbero accento ; — ma se fossimo riconosciuti?
— Ebbene ? Io son sicuro che il popolo di Roma mi saluterebbe e mi acclamerebbe. Ho fatto per esso quanto mi era possibile.
— Sì, ma qui siamo circondati da partigiani degli Orsini, che serbano rancore a me e a voi. Basta, Dio ce la mandi buona...
Il frate stava per rispondere, ma in quel momento un gran tumulto, che sorse in un angolo dell'osteria, attrasse la sua attenzione.
La causa era una delle solite. Due birri o banditi che fossero — perché somigliavano molto di aspetto esterno e di costumi — avevano intavolato una partita a dadi. Le ingiurie, preludio delle percosse, erano venute a interrompere la partita, a causa di un colpo che la parte perdente non voleva ammettere. In breve le voci superano il clamore della piazza.
— Vieni fuori, cane rognoso!
— Vieni fuori tu; voglio mangiarti il core!
E qui una filza di imprecazioni e di bestemmie. Ma ben presto la cosa si fece più seria; i due cialtroni, messo mano ai coltelli, si apparecchiavano a scagliarsi l'uno sull'altro.
Il compagno del frate, tratta una pistola si disponeva a troncare la lite con argomenti terribili, quando una donna giovane e robusta, la moglie di Gregorio, si precipitò in mezzo ai combattenti.
— Fermatevi, disgraziati! — esclamò. — Se anche vi salvaste dalle ferite, chi vi scamperebbe dalla forca? Ricordatevi che regna Sisto!
Queste parole, divenute poi proverbiali, correvano allora per Roma, e bastavano i spesso a frenare la gente più infuriata. Anche questa volta non mancarono del solito effetto.
All'udire il nome del papa giustiziere i mascalzoni si fermarono tremanti; poi ciascuno ripose il coltello nella guaina, e si allontanarono sogguardandosi coll'aria di due mastini che si abbaiano addosso ma non si mordono, perché l'eguaglianza delle forze li condurrebbe molto, probabilmente allo sterminio.
Un sorriso di trionfo rischiarò la faccia del frate alla vista di quello scioglimento inaspettato, mentre uno stupore indicibile; si dipingeva sulla faccia del soldato.
Ebbene, Alessandro disse il monaco — pensi tu ancora, che, se fossimo scoperti, io correrei un gran pericolo?
— Sarete portato in trionfo — disse il soldato, masticando come un uomo che non sa persuadersi di un fatto. — Ma, per le corna dei Re di Spagna! chi mi avesse detto queste cose un anno fa, mi avrebbe fatto ben ridere.
— Perché nessuno si curava della giustizia, Alessandro; e la giustizia, tu che sei sovrano devi saperlo, è il fondamento dei regni. Appena i deboli si sono sentiti protetti e sicuri, hanno rialzato le schiene; e gli oppressori che si reggevano soltanto su quei dorsi curvati, sono andati vergognosamente a rotoli.
Da qualche tempo Forcone osservava i due avventori che gli avevano occupato il posto migliore e non comandavano niente. Alla fine, stanco, venne al tavolino dei due forestieri, e con accento aspro domandò loro che cosa volessero.
— Portateci mezza foglietta del vostro miglior vino, compar Gregorio — disse il frate. Forcone, a questa domanda, credette di aver inteso male. Mezza foglietta per due persone che occupavano il miglior posto della taverna!
— Che volete! replicò duramente.
— Mezza foglietta del migliore — rispose colla massima calma il monaco.
— Che possiate morire ammazzati! —urlò il vinaio — vi pare che questa sia un’osteria da domandare la mezza foglietta? Fuori di qui, cialtroni, disperati!
Il soldato portò la mano al calcio della pistola; il religioso lo trattenne.
— Eppure disse con dolce voce — eppure, compar Gregorio, un editto del governatore di Roma ordina agli osti di mettere in vendita il vino anche a mezza foglietta, perchè la povera gente possa profittarne anch’essa.
Forcone era al parossismo del furore.
— Accidenti alla mezza foglietta e a chi l’ha messa!... (storico). Editto o non editto, qui dentro le mezze fogliette non si bevono.
— Andiamocene, fratello — disse il frate, dando un’occhiata imperiosa al soldato qui non è luogo per noi. Compar Gregorio, quello che avere detto è male, e ve ne pentirete.
L’oste rispose con una bestemmia orribile, intanto che i due compagni uscivano dalla sua taverna.
Si aggirarono cosi pel mercato clamoroso e pieno di vita, udendo i discorsi del popolino e i suoi rozzi ma giusti apprezzamenti sulle cose del governo. Dappertutto trovarono la stessa cosa; abbassata la prepotenza dei soliti mascalzoni, il popolo più confidente nella giustizia che mai non fosse stato.
Una specie di gigante, un ceffo da bandito che portava uno spadone al fianco e vestiva una logora divisa, tra il militare e il brigantesco, recante sulla spalla ricamato lo stemma dei Colonna, si avvicinò al banco di una rivendugliola, e si mise a contrattare delle uova.
Erano d’accordo sul prezzo. Allora l’armigero prese le uova e le ravvolse in un vecchio fazzoletto, dicendo con un equivoco sorriso alla venditrice:
— Va bene; ti pagherò quando verrai al palazzo Colonna, dove abito.
— Niente affatto — disse la donna con risoluta fermezza. — Devi pagare altrimenti metti giù quello che hai preso. Vi conosco io, e so il vostro uso; quando una volta si è fatto qualche credito a un armigero di un signore non c’ è speranza di riaver niente.
— E sarai tu che mi farai restituire le uova che ho preso? — domandò burlando il soldato.
— Sicuro, io e tutta questa brava gente. Grazie a Dio, non è più il tempo che i poveretti dovevano lasciarsi spogliare, e per giunta bastonare da voialtri. Adesso regna Sisto.
Una lagrima venne agli occhi del frate, udendo la fede robusta con cui quella povera donna invocava la giustizia del pontefice contro quel volgare mascalzone. Lo sguardo che egli rivolse al suo compagno era così pieno di gioia trionfante, che il soldato chinò il capo come uomo vinto nella sua ostinazione.
L’uomo dei Colonna stava lì, incerto fra la paura del gran nome di Sisto e il desiderio di rubare le uova, come era stato avvezzo a fare per tanti anni. Il che vedendo la rivendugliola, si mise a gridare:
— Aiuto! aiuto, gente, mi rubano!
In un attimo una folla numerosa si strinse intorno ai farabutto, minacciando, vociferando.
Un grosso omone dalla faccia allegra e franca, una specie di capoccia di quei popolani. si fece avanti, e ordinò all’armigero:
— Se ti preme la pelle, mascalzone, metti giù quella roba e vattene subito... altrimenti questi amici ti affettano come un melone.
Il furfante, pallido come un morto. volle protestare, minacciare.
— Badate! urlò — badate a quello che fate! Io appartengo a Prospero Colonna!
— E io appartengo a papa Sisto — disse l’omone con uno scoppio di risa — e il mio padrone, quando ne avrà voglia, farà impiccare tutti i Colonna e gli altri baroni Romani.
Un uragano d’applausi accolse le ardite parole del popolano, che esprimevano così bene l’effetto che aveva prodotto sullo spirito del pubblico la giustizia severa di Sisto.
Poi le grida crebbero, variando:
— Sì, sì, mascalzone! è finito il vostro tempo!
— O restituisci o ti bucheremo la pancia col tuo spadone! gridava un altro.
— A morte! a morte il bandito!
Un ragazzo. dall’aspetto civile, salì sopra un tavolino e con vocina stridente esclamò:
— Viva il nostro padre! Viva Sisto!
— Viva Sisto ! ... — rispose con grido unanime tutta quell’ immensa folla; e in quell’applauso gigantesco si perdettero tutte le grida particolari.
Il bandito comprese che c’era poco da scherzare. Depose le uova rubate sul banco della rivendugliola, e si allontanò tutto umiliato in mezzo alle grida di schernò e ai fischi della folla.
Nessuno pensò a fargli del male. Il popolo si sentiva così forte, che era pietoso. e non aveva nessuna voglia di accoppare un uomo morto...
Poco dopo, in una delle sale del Vaticano il sommo Pontefice Sisto V si intratteneva famigliarmente con un persoviaggio il cui nome risuonava alto in Europa sopra quello di tutti i guerrieri.
Era costui Alessandro Farnese, duca di Parma, nipote del gran cardinale, e generale supremo degli eserciti di Filippo II in Fiandra. Farnese era generalmente reputato il braccio della religione cattolica; di lui si poteva dire quel che fu detto più tardi del suo illustre rivale Lesdiguières, che non era stato mai vinto, quantunque avesse guidato gli eserciti spagnuoli ed italiani nelle più diverse provincie d’ Europa.
A questa fama di invincibile capitano Alessandro Farnese aggiungeva una riputazione anche più invidiabile; quella di principe giusto e umano, padre egualmente dei suoi popoli e dei suoi soldati. La sua presenza aveva bastato a rattenere le provincie del Belgio nella fede, mentre la Fiandra circostante era in fiamme; se fin dal principio il duca di Parma fosse stato messo al governo delle provincie in rivolta, era opinione generale che la sollevazione sarebbe finita per mancanza di ribelli.
Il papa aveva una predilezione grandissima verso il glorioso generale, accresciuta dalla stima che professava verso cardinale Farnese, suo emulo nella elezione. Una delle grandi qualità di Sisto fu appunto quella di non occuparsi mai delle relazioni coi principali uomini di Chiesa anteriori al suo pontificato.
I nipoti di Gregorio XIII, del suo gran nemico, che avevano preso parte non piccola ai fastidii inflitti dallo zio al cardinale-frate, erano stati trattati con rispetto, e avevano conservato quasi tutti i loro gradi e onori. Allo stesso modo il cardinale Farnese, il vinto della gran battaglia del conclave, era rimasto presso il nuovo papa nella considerazione che aveva goduto presso i pontefici antecedenti.
— Che ne dici, mio buon Alessandro?
— domandava Sisto — la mia vecchia Roma, non ti pare un po’ mutata, dal tempo che ci venisti la prima volta, a tempo dell’altro papa?
— Non riesco ancora a riavermi dallo stupore, Beatissimo Padre. Quando, or sono cinque o sei anni, io era a Roma, tutti comandavano; i baroni, i banditi, i cardinali, i ministri esteri. Il solo che non comandava nulla era proprio il papa. La giustizia era una vana parola; il popolo, quando osava, si serviva da sé, ma il più delle volte chinava la testa e sopportava fremendo le ingiurie e le prepotenze dei suoi tiranni.. Invece adesso...
— Adesso le cose vanno diversamente — interruppe il papa — adesso i buoni sono incoraggiati e i malvagi tremano. I miei birri, Farnese, penetrano nei palazzi dei gran signori per arrestarvi i banditi, e né Orsini, e né Colonna, né Savelli ardiscono opporsi alla mia giustizia. La forca è in permanenza e i banditi più terribili vi salgono e muoiono ignobilmente in faccia al popolo che hanno si lungamente terrorizzato. Oggi a Roma comanda Sisto, e come vedi, basta il suo nome a separare i più feroci combattenti. Non pare a te che questo sia un bel risultato?
— Mirabile, Santità. Anche ieri mio zio il cardinale, mi parlava colla più grande ammirazione di quest’opera del papa. Ma io non avrei mai creduto che le lodi di mio zio rispondessero così pienamente alla verità; io credeva, lo confesso, che le parole di mio zio fossero esagerate dal rìspetto e dalla venerazione senza limiti che egli ha per voi....
— Ah! il signor cardinale Farnese ti parlava di questo? — disse con visibile soddisfazione, il pontefice. — Io ne sono lieto, perché sono sensibilissimo all’approvazione di un uomo del suo valore, mentre le sue ceusure mi ispirano subito il desiderio di trarne profitto.
— Infatti — disse con un sorriso il duca di Parma — alle lodi di mio zio era frammista una censura... o, per dir meglio, esprimeva un rispettoso dubbio...
— E quale?
— Egli temeva che Vostra Santità, ricordando troppo le oppressioni che il popolo ha patito da parte dei grandi, fosse più severo del necessario nel colpire i baroni, e più indulgente nel punire la plebe...
— Tuo zio non ha veduto giusto — disse dopo un breve silenzio il pontefice — sono assolutamente risoluto a colpire tutti, dalle teste più alte alle più umili. Tutti eguali innanzi alla giustizia, a tutti è rìserbato, in caso di colpa che lo meriti, il carnefice....— Eppure, Santità — disse il duca di Parma — vogliate perdonare alla franchezza di un soldato, ma mi è parso che questa mattina stessa....
— Oh, capisco, vuoi parlare dell’oste di stamattina, con quella faccia da bandito.... Ebbene, Alessandro. tranquillizzati; domani vedrai che Sisto non perdona a nessuno.
L’indomani, verso le otto di mattina, Forcone scese tranquillamente nella sua osteria, ove già la polputa trasteverina che portava il suo nome, era intenta ai prìmi preparativi della cucina.
I primi sguardi del bandito fatto oste furono attirati da un singolare spettacolo.
Nel largo spazio sterrato che si distendeva innanzi alla bottega, diversi operai erano occupatissimi a erigere alcuni pali. Forcone, poco tollerante di sua natura, usci dall’osteria per vedere che cosa fosse quel lavoro che egli considerava come un’usurpazione de’ suoi possessi.
— Ohè!... — interpellò egli i lavoranti — che diavolo fate voi in questo terreno ?... vi siete messi in testa di levarmi tutta la luce ?... Vi avverto che nella mia osteria ci si vede chiaro, e non voglio cominciare oggi a stare al buio.
Uno dei lavoranti alzò la testa, e riconoscendo Forcone, fece un cenno di saluto amichevole.
— Non vi spaventate, compar Gregorio — disse. — Questa è roba che serve soltanto per oggi. e domattina non ne restera più traccia.
— Non fa niente.... Per ordine di chi state facendo questo lavoro?
— Per ordine del bargello.
— Ah ! ... E che diavolo fa costruire il bargello proprio innanzi alla mia osteria?
— Una forca.
La risposta era di quelle che chiudono vantaggiosamente un dialogo. Forcone non volle saperne di più e rientrò nell’osteria più allegro che non ne fosse uscito.
— Sai? — disse alla moglie — oggi avremo di sicuro una gran vendita di vino.
— Perchè credi questo?
— C’ è giustizia. Stanno innalzando la forca proprio innanzi all’osteria!...
Alle nove giunse una compagnia di svizzeri al servizio pontificio, e comincio a guarnire tutti gli sbocchi della piazza. La folla si radunava mormorando, perché quell’esecuzione in ora insolita e in luogo diverso dal consueto aveva di che suscitare ampiamente la curiosità.
Finalmente, verso le dieci, il bargeilo si presentò nell’osteria di Forcone, accompagnato da una squadra di birrì e da un frate cappuccino.
Voi siete padron Gregorio, detto Forcone? — disse il capo dei birri, con un tOno di voce che indicava come egli fosse sicuro di non ingannarsi.
— Eccomi qua — rispose l’oste meravigliato — che posso fare pel vostro Servizio?... — Seguirmi, e intendervi con questo reverendo per la salute dell’anima vostra — disse il bargello, colla freddezza di un uomo avvezzo a impiccar la gente.
Al tempo stesso i birri si gettavano sull’ oste, e lo legavano strettamente. L’ impresa fu assai facile, il terrore aveva paralizzato ogni resistenza che il disgraziato avrebbe potuto fare.
— Mio marito ! ... — urlò la trasteverina gettandosi come una furia sul bargello;
— mio marito arrestato!... E perché?...
— Per aver mandato delle imprecazioni alla mezza foglietta e a chi l’ha messa — rispose l’ufficiale di giustizia impassibile
— chi l’ ha messa è il papa, e Sisto, come sapete. non vuole che gli si manchi di rispetto.
— Ah, poveretta me! ...povero Gregorio!... lo terranno in prigione molto tempo. signor bargello?
— Neppure un giorno, neppure un’ora, mia bella sposa — disse beffardamente l’ufficiale.
I birri diedero in unoi uno scroscio di risa, apprezzando molto la facezia del loro capo.
La giovane, per quanto non penetrasse il lugubre significato di queste parole, comprese tuttavia che si trattava di qualche cosa di terribile.
— Oh, signori miei, ditemi di che si tratta.... Non gli farete del male, non è vero, al mio povero Gregorio?...
— Eh, per bacco !... — esclamò con impazienza uno dei birri, più rozzo degli altri — non avete visto che stamattina si è eretta una forca proprio avanti alla vostra osteria?...
La disgraziata gettò un grido altissimo e svenne. Tutto questo era avvenuto in assai minor tempo che non occòrra a raccontarlo. Forcone, ridotto dalla paura inerte e insensibile, pareva non si occupasse affatto di quello che succedeva intorno a lui.
Il cappuccino gli si avvicinò, e con voce sommessa eccitò il miserabile a pentirsi dei suoi peccati, e a pensare all’anima sua.
A quelle parole parve che il condannato uscisse dal suo torpore.
— Pentirmi! — urlò, balzando in piedi con tal furia, che i birri temettero un momento che rompesse i lacci da cui era avvinto. — Pentirmi! e di che? Per avei detto una parola, mi mandano alla forca... Maledetto chi fa la giustizia in questo modo! maledetto il papa e tutti i suoi giudici!
Il frate non si mosse.
— Pensaci bene, Gregorio, e vedrai che non è per la parola che hai detto che sei condannato a morte.... Non ricordi là nel castello di Bracciano, la fattoressa... pugnalata per ordine del signor Lodovico Orsini...
Il bandito sobbalzò e rimase tutto tremante.
— E Giulio Savelli — proseguì il frate — ucciso a tradimento mentre usciva dalla casa dell’ innamorata..., e Vincenzo Vitelli, che i tuoi complici avevano ferito mortalmente e che tu hai finito d’uccidere.... Vedi che la tua parola non è quella sola che ti manda al patibolo.
— Questa voce! — gridò il furfante — quegli occhi. — Ah, ti riconosco frate... tu sei quegli che ieri venisti nella mia osteria e mi domandasti la mezza foglietta...
— Richiama le tue memorie, Forcone... noi ci siamo visti in altri tempi... ricordati dell’assassinio di Francesco Peretti, del prete che s’ inginocchiò ìnnanzi a te supplicandoti di aiutarlo a vendicare suo nipote....
La faccia, gli occhi sbarrati di Gregorio espressero al più alto grado la sorpresa, il terrore.
— Il cardinale di Montalto! — mormorò con, voce soffocata — Sisto. V!
— Sisto V, sì... che la Provvidenza ha conservato e fatto salire a tanta altezza perché potesse punire... Muori dunque, Forcone, e pentiti dei tuoi peccati; se vivesti da belva, muori almeno cia cristiano.
Il miserabile cadde in ginocchio. tentando, malgrado i lacci che lo tenevana serrato, di giungere le mani.
— Grazia! grazia! — supplicava affannosamente. — Come! voi potete salvarmi, e mi lasciate morire! oh, è orribile!
— Hai tu fatto grazia a Giulio Saveili? hai fatto grazia a Vincenzo Vitelli? hai fatto grazia — e qui la voce del papa ebbe un singulto lacerante — hai fatto grazia a Francesco Peretti?
— Oh. mi pento, mi pento... sone stato uno scellerato... ma salvatemi, padre santo, ve ne supplico! Voi con un cenno lo potete... la galera più spaventosa, ma vivere!
— No, perché se tu vivessi, io dovrei uccidere la giustizia; perché le ombre degli innocenti che tu hai assassinato, mi rinfaccerebbero il sangue colpevole che non ho osato versare. Muori, Forcone, e pentiti! e sappi che, regnando Sisto, chiunque avrà ucciso, lo giuro pel Dio vivente, morra...
Il condannato rigettò la testa all’ indietro mandando un sordo gemito. Lo sguardo del papa gli aveva appreso che qualunque tentativo di rivolta sarebbe stato vano.
I Preparativi dell’esecuzione erano belli e compiuti; una folla immensa aspettava con ansia il momento del lugubre dramma. il frate, di cui il solo condannato avrebbe potuto tradire l’ incognito, si collocò a pochi passi dal patibolo, in guisa da veder tutto.
Il condannato che non lo aveva perduto di vista, nel momento in cui il boia stava per gettargli al collo il laccio fatale, volse lo sguardo supplichevole al frate.
L'occhio di costui rimase immutabilmente severo.
Allora Gregorio diede un gran sospiro, e alzando questa volta la voce:
— Perdono almeno — gridò — ch’ io muoia almeno perdonato!
Il frate alzò la mano in atto grave e mesto, mentre i suoi occhi additavano il cielo: sul viso del bandito apparve un fuggevole raggio di gioia malinconica; ma fu un lampo, perché un secondo dopo, il suo corpo dondolava nello spazio.
E uno! — disse il monaco in truce accento, allontanandosi a lento passo dal luogo dell’esecuzione.
La vendetta dello zio di Peretti incominciava, confondendosi per caso felice colla giustizia romana del Pontefice.
Quello che Sisto aveva preveduto avvenne. Il popolino, quantunque non ignorasse che Forcone era stato un poco di buono, restò pienamente persuaso che il motivo della condanna fosse stato l’affare della mezza foghietta.
Ne cresceva il terrore verso un governo così vigilante, così bene informato, così pronto a punire; e il risultato fu che gli ordini di Sisto venivano oramai da tutta la cittadinanza eseguiti con uno zelo, al quale non era estraneo la paura.
Una calma gioconda, una sicurezza incredibile cominciavano a regnare nella città. La popolarità di Sisto era tanta, che i parenti stessi degli impiccati da lui non osavano lamentarsi, temendo non la vendetta di Sisto, ma il furore del popolo.
In capo a poche settimane — come con giusto orgoglio diceva il papa all’ambasciatore di Venezia Roma era stata interamente sfrattata dai malviventi e dai loro terribili complici titolati.
Restavano la campagna e i banditi.