Giovedì, 25 Aprile 2024

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L'EREMITA

Contro di questi l’opera di Sisto si era dimostrata fino allora impotente. Egli aveva ben potuto dominare la prepotenza dei baroni dentro Roma; ma gli era impossibile distruggere così di colpo il brigantaggio in Provincia, radicato da secolari consuetudini e incoraggiato dalla tolleranza dei principi vicini.

I banditi della campagna avevano molti e svariatissimi alleati, oltre i baroni e gli stati stranieri. La scena che ci accìngiamo a narrare, darà al lettore un’ idea di taluni di questi alleati.

Era una mattina di domenica. L’eremo di fra Galdino, uno dei più frequentati del paese circostante, aveva preso una singolare fisonomia di festa. Il piccolo giardino che apparteneva all’eremitaggio era stato spogliato dei suoi fiori più belli che si distendevano in trionfali festoni intorno alla porta della casetta, ed empivano la piccola cappella del Crocifisso.

Fra Galdino, specie di gigante membruto e colla pelle abbronzata dal sole, era un eremita che solo da pochi mesi aveva portato la sua tenda nei monti Parioli. Ma l’essere ultimo venuto non aveva giovato alla sua fama, avendo il sant’uomo creduto bene di confermarla a forza di miracoli.

E non si trattava già di miracoli fatti una volta sola, difficili a provare e controllare, e basati più che altro sulla fede di qualche povero villano. Fra Galdino era più generoso; egli offriva un miracolo in permanenza, debitamente documentato e bollato, un miracolo che per pochi soldi era a disposizione di tutti, credenti o no.

Questo miracolo consisteva in un crocifisso di legno posseduto dall’eremita, che assicurava di averlo portato via colle proprie mani dal tempio di Gerusalemme, rubandolo ai Turchi da cui era custodito con somma gelosia.

Il crocifisso, a prima vista, infisso come era in un piedistallo di legno e accostato al muro, non aveva nulla di particolare. Ma quando c'era gente, quando abbondavano i pellegrini ricchi e devoti, l’eremita faceva ad alta voce una preghiera fervente innanzi alla sacra immagine, supplicando Gesù Cristo di mostrare con un segno visibile ed evidente come egli gradisse i voti e le preghiere del suo popolo.

Allora — il fatto era attestato da migliaia di persone di ogni condizione sociale, che lo avevano visto — la devota immagine chinava alquanto la testa; e poco dopo due rosse stille, due goccie di vero sangue scendevano dagli occhi del divino Martire sulle sue guance.

Il delirio dei presenti a quella vista non aveva più limiti. Le più grandi signore, che accorrevano in folla all’eremo, supplicavano perché si concedesse loro di asciugare col fazzoletto una goccia di quel prezosìssnno sangue; favore che l’ eremita accordava a prezzo esorbitante, e che riempiva sempre più i suoi forzieri.

Il cardinale di Como, primo ministro di Gregorio XIII, si era commosso alla voce di questo miracolo non verificato dalla Chiesa; e aveva incaricato il parroco di Santa Maria del Popolo di vedere che cosa ci fosse di vero. Subito il parroco aveva ricevuto la visita dell’eremita, che a nome di Gesù Cristo e del suo crocifisso di legno gli portava in regalo un bel gruzzolo di zecchini nuovi fiammanti.

Il solitario aggiungeva che il Redentore avrebbe colpito colla sua collera più tremenda, chi avesse messo in dubbio la realtà del miracolo; e che, se mai questo scettico avesse ricevuto, passando per qualche via deserta, una fucilata fra capo e collo, avrebbe dovuto attribuire questa disgrazia alla sua poca fede nel crocifisso di fra Galdino.

Questi argomenti, benché non al tutto teologici, parvero convincenti al curato. Si recò alla cappelletta dell’eremo, ebbe dall’eremita una succulenta colazione inaffiata da un Tokai stravecchio, che era stato regalato a fra Galdino da una devota principessa ungherese, e tornò a Roma perfettamente persuaso che il miracolo del Cristo era vero e reale. In questo senso fu redatto il suo rapporto al segretario di Stato.

Intanto, morto Gregorio e succedutogli Sisto, corse altissima la fama dell’ inflessibile severità del nuovo papa, che. senza riguardo a nessuno, distruggeva i malvagi. Parve che il crocifisso di fra Galdino disapprovasse le opere del nuovo pontefice, perché nelle prime settimane del suo regno negò ostinatamente, malgrado le preghiere dell’eremita, di fare il consueto miracolo.

Ma, a quanto parve, la paura che l’eremita dei miracoli aveva concepito della vigilanza di Sisto, si era venuta calmando; perché un bel giorno fra Galdino annunziò aver ottenuto in visione l’avvertimento del cielo, che la susseguente domenica si sarebbe compiuto il miracolo consueto.

La mattina che precedeva il giorno destinato al miracolo, quando appena l’alba imbiancava il cielo, due uomini si trovavano nell’eremo dei monti Parioli e discorrevano tranquillamente fra loro. Uno era fra Galdino, il famoso eremita; l’altro una specie di contadino dall’ aspetto melenso, ma cogli occhi pieni di indicibile malizia.

Due bicchieri di vino, colmati con sottrazioni al ventre inesauribile di una damigiana, indicavano come il santo romito intendesse e praticasse la sentenza del libro sacro Vinum laetificat cor hominis.

— E così, Galdino, credi a buon successo? — interrogava il contadino. — A me pare che il vecchio Massimi sia volpe troppo vecchia per cadere in una rete cosi grossolana.

— Come, grossolana? — interruppe l’eremita, tutto infiammato di collera. — Sappi, villanaccio, che in quella rete così grossolana, come ti piace di chiamarla, son cadute delle persone che valgono molto meglio di te; dei prelati, delle grandisignore...

— Ci son cadute.... proprio? — domandò il ciociaro con un fine sorriso.

O almeno hanno avuto interesse a farlo credere, che è lo stesso — replicò l'eremita.

I due compari si scambiarono uno sguardo che dovette far sussultare di gioia il diavolo, il loro degno patrono.

— Così dunque, il marchese Massimi, tu assicuri, verrà tutto volenteroso al tuo eremo?

Volenteroso, non garantisco. Da che in casa Massimi è entrata quella bella signorina, che da figlia di un cuoco è divenuta marchesa, non è più don Placido che comanda in casa sua.

— Ma insomma, verrà o non verrà?

— Di certo, ti dico.... Quello è un buon bottino! oro, diamanti perle.... senza contare che il vecchio marchese pagherebbe di certo un bel riscatto, se si trattasse di liberare dalle tue unghie la sua diletta moglina.

— Di questo non parliamo — rispose il ciociaro scuotendo il capo. — L’affare delle persone imprigionate e da riscattare poteva essere buono sotto l’altro papa; ma con questo.... ci sarebbe da essere impiccati io e i miei uomini, e magari il marchese per giunta. Ma, sia comunque, il bottino varrebbe sempre la pena.... Ma non m’inganni, Galdino! bada a te!

L’eremita alzò le spalle.
— Vi ho ingannato le cento volte che abbiamo fatto affari insieme?

— Ah, non lo nego.... Ma non parliamo di questo — soggiunse il cialtrone, con un cupo sorriso. — Due mesi fa, quel prelato boemo, carico di scudi che mi avevi promesso.... e che improvvisamente mutò strada, come se fosse stato avvertito da qualcuno che sotto le rovine di Ponte Milvio era appiattato io coi miei....

Senza dubbio qualcuno lo mise in guardia spaventandolo coi racconti delle grassazioni già avvenute — disse l’eremita con imbarazzo.

— O piuttosto fra Galdino lo aveva avvertito, facendosi pagare lautamente l’avviso.

— Sei pazzo, Scampaforche — soggiunse il frate con accento rinfrancato. — Cairai che il dare un avviso simile a quel prelato sarebbe stato quanto un confessargli le mie relazioni con te.... e questa amicizia, per quanto onorevole, non è certo quella che mi farà fare un gran passo nella carriera ecclesiastica....

Il brigante si smascellava dalle risa.

— Che?! ... — esclamò — hai forse intenzione di farti nominare vescovo o cardinale — Perché no?... Un semplice porcaro è ben riuscito a diventare papa Sisto V!...

Al nome del pontefice regnante, Scampaforche fece una smorfia che tutto poteva significare fuorché l’approvazione. Però si ricompose subito, e disse all’eremita:

— Dunque siamo intesi. Se capiterammo nelle vostre mani il vecchio e la sposina... la donna per te.... quanto al bottino. divideremo in parti eguali, secondo il solito.

— Bada però di non ingannarmi, Scanpaforche; io sono in grado di sapere fino all’ultimo centesimo che cosa avranno gli svaligiati, e se mi rubassi....

Scampaforche si alzò indignato.

— Frate, bada come parli! ... — esclamò tutto in collera. — Faccio il bandito, ma onestamente, e se ti permetterai un’altra volta di mettere in dubbio la mia onestà, saprò io....

Via. via, ho voluto scherzare; so benissimo che sei incapace di rubare a un amico.
I due compari si sogguardarono ridendo; poi Scampaforche si gettò a traverso i campi e scavalcando siepi e saltando precipizi in un momento scomparve.

L’eremita si ritirò nella cappella, ove si diede alle sue tenebrose manipolazioni.

Poca dopo incominciarono ad arrivare i primi devoti. Erano contadini e pinzochere del volgo, che si contentavano di star fuori della cappelletta e credevano al miracolo sulla fede di quelli che c’erano dentro. L’eremita vendeva il permesso di entrare, e non era certo la povera borsa di quei devoti cenciosi che avrebbe potuto pagarlo.

Nondimeno fra Galdino era tutt’ altro che disposto a sprezzare quella massa di gente. Essa faceva numero, rialzava l’ importanza dell’eremo, e richiamava un gran numero di devoti più serii e facoltosi.

Verso le dieci di mattina la folla era già considerevole. Stavano tutti silenziosi. accovacciati alle radici del monte, sotto la sferza del sole. Intanto cominciavano ad arrivare da Roma le lettighe, i signori, le gran dame, i servi riccamente vestiti, gli armigeri con fiero contegno.

Tutta questa gente si avviava alla cappelletta, aspettando che piacesse all’eremita di aprirne la porta. Ma il santo servo di Dio, che da una specie di suo piccolo osservatorio, aveva potuto vedere l’aristocratica clientela che veniva a visitarlo, sì era affrettato ad aprire la porta e ad uscire, vestito della sua tonaca fratesca che rendeva la sua alta statura anche più imponente.

Un silenzio universale accolse l’apparizione del romito. Costui alzò gli occhi al cielo, stralunandoli in modo da somigliare non male a un epilettico preso lì per lì dal mal caduco.

Questo genere di ciurmeria è stato sempre ricercatissimo dai farabutti del genere di quel romito, perché i risultati sono sempre eccellenti e inevitabili.

— Fratelli miei — cominciò con voce che pareva il muggito di un bove — fratelli miei, il Signore è irritato dei peccati che si commettono ogni giorno a Roma. Egli mi comanda di dirvi che, se non pensate a emendarvi, la sua collera cadrà su voi come cadde su Sodoma e Gomorra.

Un mormorio, misto di pianti e di singhiozzi, rispose a queste parole. Evidentemente tutta quella moltitudine aveva la coscienza talmente carica, da non trovare malfatto che le si applicasse il castigo del fuoco celeste.

— State forti nel bene, fratelli miei — proseguì il romito — resistete alle tentazioni e venite a inginocchiarvi ai piedi del miracoloso crocifisso che ha degnato rivelarsi a un suo servo indegno come me. Supplico i signori e gli ecclesiastici entrare nella cappelletta; gli altri, essendo troppo ristretto il luogo, si contenteranno di rimaner di fuori a pregare.

Cominciò allora la sfilata. Siccome tutti sapevano che l’ ingresso nella cappelletta era un privilegio concesso a pochi, e che bisognava pagare con larghe offerte, soltanto qualche nobile e qualche alto ecclesiastico si avventurarono ad entrare. Con loro entrarono tre o quattro dame di alto grado, spinte in quel luogo dalla devozione e ancor più dalla curiosità.

A destra di chi entrava era un vaso di terra, destinato a contenere le offerte.
La cappelletta era semplice ma allegra. Ornata di fiori che i contadini avevano la pia abitudine di portare tutte le mattine, illuminata dal sole che entrava dalle finestre aperte a due esposizioni, essa non suscitava alcun sentimento di terrore, almeno a prima vista. Un altare, coperto da una tovaglia bianchissima, rappresentava tutto l’apparecchio del culto ordinario.

Il romito, quando ebbe veduto che la gente si affollava al suo tempietto, stava per chiudere la porta della cappelletta. Un frate francescano dai sandali logori e dalla tonaca sbiadita per l’età e le intemperie, si presentò per entrare anch’egli.

La sorpresa, l’ indignazione soffocarono per un momento il romito. Finalmente appena ricuperò la parola:
— Frate disse bruscamente — questo non è luogo per te. Non vedi che la mia cappelletta è troppo piccola per i principi e i vescovi che vi si affollano?... Ti pare di essere in grado di mescolarti a questi illustri personaggi, colle tue sudicie e logore vesti?

Il frate rizzò alteramnte la testa, e fece scintillare due occhi che parevano carboni accesi.

Con queste misere vesti io dico messa ogni mattina e tocco il corpo e il sangue di Cristo. Non ti pare, santo romito, che si tratti di qualche cosa di più sacro dei tuoi vescovi e dei tuoi principi?

— Ma io ti ripeto!...
— Ascolta, romito; vuoi lasciarmi entrare di buon grado, o vuoi che io sollevi contro di te il furore di questa folla, già malissimo disposta perché si vede esclusa dal luogo sacro per la sua povertà?

— Entra, alla malora! ... — mugolò il romito, battuto nelle sue ultime fortificazioni. E fra sé brontolava:
— Lascia che ci incontriamo in qualche vicolo deserto della campagna, e poi col mio bastone ti toglierò per sempre la voglia di entrare per forza in casa altrui!
E così il francescano si trovò mescolato, a tutta quella elegante e profumata folla, che non degnò neppure di uno sguardo di povero monaco.

A un tratto il romito esclamò:
— Fratelli, fratelli, pregate.... Gesù Cristo annunzia la sua venuta.... Guai ai peccatori, guai agli induriti! ... Lo sdegno di Gesù Cristo è vicino a scoppiare.

E si gettò in ginocchio.
Allora una parete del fondo si aperse, e le due parti rientrarono, come scenarii di teatro, nei muri laterali.

Ciò che i visitatori videro, era veramente cosa da empirli di rispetto e di spavento.
Quella parte riservata della cappelletta era affatto nuda; le mura non avevano nessun ornamento, neppure un pezzo di carta.

In mezzo a quella povertà appariva, confitto in uno zoccolo di legno ad altezza d’uomo e circondato da quattro candelabri fiammeggianti, il Cristo miracoloso dell' eremita.

Figuratevi un crocifisso di legno, tutto nero per vetustà; ma il tempo non aveva potuto cancellare la divina impronta scolpitavi, alcuni secoli prima, da un artista di genio. Era una figura di grandezza umana; l’espressione del viso gelava di spavento i riguardanti, tanto era poderoso e infinito il dolore, lo spasimo che contraeva quei lineamenti immobili.

Le membra pareva si torcessero ancora sotto il morso del dolore; nessuna descrizione potrebbe rendere al vivo quelle carni lacerate, quei muscoli gonfiati da uno sforzo impossente, quei nervi attorcigliati da un ultimo sussulto di agonia.

Brunellesco e Donatello si sarebbero inginocchiati innanzi a quella grandezza artistica, opera di uno sconosciuto. L’eremita aveva acquistato per pochi soldi quella meraviglia, che ai nostri tempi si pagherebbe tesori se si potesse trovare in qualche remoto convento della Spagna.

Certo quei convenuti nella casa dell’eremita non erano gente da essere troppo inchinevole alle impressioni religiose. Roma era scettica; troppe volte i Romani avevano veduto ben da vicino il vicario di Cristo, troppe erano le turpitudini ond’ era piena la Curia perché si potesse trovare nel cuore degli altolocati quella fede ingenua, fervente, che ancora si trovava nelle provincie più lontane. Machiavelli aveva già notato che la religione cresceva allontanandosi da Roma, e scemava a misura che si entrava nella eterna città; il che, oltre a mille ragioni di carattere degli abitanti e di trascuranza dei preti, derivava anche dal fatto che le relazioni esterne della chiesa, rette da una grande tradizione, erano quasi sempre governate con senno, con temperanza, con vigore, con virtù apostolica; mentre la politica dello Stato pontificio e il governo di Roma stessa erano soggette a tante influenze di corruttela, di nepotismo, di interessi personali, che tutto andava alla malora, fra le beffe e l’ indignazione del popolo.

Ma, alla vista di quel meraviglioso crocifisso inarrivabile espressione di cordoglio e di supplizio, anche i più induriti si sentirono commossi, e però preparati alla scena che stavà per succedere.

Il romito infatti, a un certo punto, si gittò colla faccia a terra.

Oh, Signore! — esclamò — perdonateci, siate mediatore fra noi e il vostro Padre celeste! Se le nostre preghiere, se i nostri sentimenti di penitenza vi hanno commosso, datene un segno, o Signore, un segno che ci dica che non siete sordo alle nostre preci!

Una specie di sordo gemito, che partiva dal crocifisso, rispose a quella preghiera. Tutti gli occhi si volsero a quella miracolosa immagine; un brivido, un sovrumano terrore percosse tutti. E nondimeno erano appena al principio.

A poco a poco gli occhi del simulacro sì arrossarono; poi, dopo un minuto che parve un secolo, due grosse lagrime — lagrime di sangue — scesero sulle gote del Cristo, e si fermarono verso la mascella inferiore.
Miracolo! miracolo! — gridarono tutti.

Una forza sovrumana piegò le gambe di tutti coloro. E i prelati galanti, i principi carichi di delitti, le dame che avevano infranto ogni vincolo di onestà e di pudore, precipitarono in ginocchio, gridando con voce lamentevole:

- Grazia! perdono! Gesù, perdonateci!

Il romito, benché stesse prostrato colla faccia sul pavimento, vedeva colla coda dell’ occhio tutti quei movimenti e ne gioiva. Da gente così commossa era facile aspettarsi ogni generosità!

Solo il frate francescano era rimasto in piedi a contemplare la scena, con occhi che non presagivano nulla di buono pel romito. A un tratto il monaco si accostò ai piedi del crocifisso, s’ inginocchiò, e si mise a pregare con fervore.

— Egli è vinto — pensò il romito vedendolo — egli sarà domani uno dei miei apostoli....
L' illusione fu di breve durata. Il monaco sì portò accanto al crocifisso, e con voce tonante:
— Vescovi e signori — gridò — voi che avete ufficio di punire l’ impostura, come osate farvi complici di un’empia e sacrilega commedia?...
Un grido di stupore, d’ irritazione rispose a quella brusca apostrofe. Il romito si rialzò più che di fretta, come per avventarsi sul monaco. Ma questi, calmo e impassibile, trasse di sotto la tonaca una accetta, e voltosi al crocifisso esclamò:

COME CRISTO T’ADORO, COME LEGNO TI SPACCO!...

Non aveva ancor detto, e il cranio della divina immagine era spaccato in due.
— A morte!.., a morte!... urlò il romito precipitandosi sul monaco; e intanto i devoti che erano nella cappella, sorti in piedi, si avventavano sul sacrilego atterratore.

Ma questi aveva avuto il tempo di gettarsi indietro gridando:
— Riconoscete il padrone!
— Sisto! ... — mormorarono tutti, prostrandosi con nuovo terrore nella polvere.
Iil papa, ritto e minaccioso, assaporò per qualche momento il proprio trionfo.
— Ed ora, ciechi e ipocriti, guardate!...— ordinò il pontefice.
— La testa che ho infranto era scavata, e il vuoto era occupato da questa spugnetta imbevuta di sangue. Allorché questo scellerato voleva produrre il suo miracolo, bastava premesse sopra una cordicella piantata nel pavimento; la spugna era compressa, e il sangue scorreva per gli occhi del crocifisso. Siete voi persuasi?...

Era difficile il non esserlo. Il papa aveva già tratto fuori la spugna sanguinante e spremendola colle dita ne faceva uscire tanto liquido, da poter produrre una vera inondazione di lagrime.
i devoti, furiosi per l’ inganno, volevano fare a pezzi il romito, che stava sempre in terra, aspettandosi da un momento all’altro il colpo fatale.

— Fermate! — gridò il pontefice. — Nessuno di voi ha il diritto di toccare questo uomo; egli non è più colpevole di voi, perché ha bensì ordita la trama, ma voi colla vostra stoltezza ve ne siete fatti complici. Principe di Santa Croce, fate venire le mie guardie, che sono appostate nei dintorni.

Le guardie entrarono un minuto dopo. Traevano con sé incatenato il brigante Scampaforche, il santo amico del santo romito.

— Ah, sei tu! — disse il papa, appena seppe dell’ importante cattura. — Ebbene. in mal punto sei capitato al romitaggio! Il romito sarà per mio ordine inviato alle galere; quanto a te, lo giuro pel Dio vivente, morrai impiccato.

— Vuol dire che farò torto al mio nome

— rispose tranquillamente Scampaforche.

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